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La Corea del Nord è una nazione paradossale, sospesa tra un indistinto medioevo asiatico e allo stesso tempo proiettata in una modernità dispotica e orwelliana. Un regno eremita, unico al mondo, opaco anche anche nelle immagini satellitari che ci restuisce google map, sfocate e indecifrabili. Una nazione in cui la dottrina comunista è solo l’involucro ideologico accidentale di una concezione atavica dei rapporti di sudditanza, di un potere assoluto e misterioso, che spesso si presta alla parodia. Ma sarebbe un errore liquidare la monarchia dei Kim come un fenomeno folkloristico e in fondo inoffensivo al di fuori fuori dai suoi confini nazionali.
La bellicosa escalation diplomatica tra Pyongyang e gli Stati Uniti, le minacce di reciproco annientamento evocano, al di là della propganda incrociata, una possibile guerra tra Washington e i suoi alleati contro il regime di Kim Jong- un. Quali conseguenze provocherebbe un simile conflitto nell’area del Pacifico? Davvero la potenza militare americana annienterebbe la resistenza della piccola Corea in poche settimane come ripete ai quattro venti il presidente Trump? La suggestione di liberarsi una volta per tutte dell’anacronistica dittatura eccita più di uno stratega del Pentagono nella convinzione che si tratterebbe di un intervento semplice.
Ma le cose non stanno così. Con un milione e 200mila soldati ( più 7 milioni di riservisti) l’esercito nordcoreano è il quarto del pianeta e si succhia la gran parte delle spese pubbliche ( 5 miliardi di dollari, oltre il 30%), anche se gli equipaggiamenti non sono certo all’avanguardia la sua forza d’urto è considerevole, niente a che vedere con l’Afghanistan, l’Iraq o la Libia tanto per citare alcune recenti avventure belliche degli Stati Uniti. Inoltre si tratta di soldati con un grande senso della disciplina, indottrinati fin da giovanissimi all’educazione patriottica e addestrati con grande applicazione nel corso del lunghissimo apprendistato. Il servizio militare è naturalmente obbligatorio e sembra un romanzo di formazione: dieci anni per i maschi e sette per le femmine, queste ultime inquadrate nei ranghi dell’esercito proprio da Kim Jong- un nel 2015.
Secondo un rapporto del Center for strategic and International studies Pyongyang dispone di circa 4200 carri armati, 2200 veicoli blindati, 740 navi da combattimento, 70 sottomarini, 820 aerei e 170 elicotteri d’assalto. A questi bisogna aggiungere il migliaio di missili balistici SCUD- B, SCUD- C e No Dong, che il regime testa in continuazione più eventuali armi nucleari: il regime non ha ancora miniaturizzato una bomba atomica e non dispone di missili intercontinentali, ma è in grado di colpire la confinante sudcorea e il Giappone.
È vero che la tecnologia militare nordcoreana è obsoleta, in gran parte degli anni 60 e di concezione russa, cinese e pakistana come i sottomarini classe Romeo, di fatto delle copie aggiornate dei celebri U- Boot tedeschi della Seconda guerra mondiale, ma è più che sufficiente per sferrare un blitzkrieg contro i cugini del sud, scenario che i generali di Seul hanno simulato centinaia di volte e che comporterebbe la perdita di decine, forse centinaia di migliaia di civili.
Un’altra inquietudine della comunità internazionale riguarda gli stock di armi chimiche e biologiche di Pyongyang che, con l’Egitto e il Sudan è l’unico Paese non firmatario della Convenzione che ne vieta l’utilizzo ( Cac). Per quanto non sia possibile quantificare con esattezza l’arsenale chimico di Kim, nel 2014 un rapporto delle Nazioni Unite aveva denunciato «ingenti quantità» di sostanze virali, neurotossiche e urticanti in posesso dell’esercito. In questo caso si tratta di prodotti di ultima generazione probabilmente già utilizzati dai servizi segreti per regolare gli “affari interni” come nell’uccisione lo scorso febbraio di Kim Jong- nan, fratello “ribelle” di Kim Jong- un, avvelenato da all’aeroporto di Kala Lumpur dal micidiale gas VX, un neurotossico dieci volte più letale del famigerato Sarin e classificato come arma di distruzione di massa.