PHOTO
C'è una vecchia pellicola antimilitarista degli anni 70 che si intitola Comma 22. Fa riferimento a una disposizione del codice di guerra in base al quale «chi è pazzo può fare domanda per esentato dalla missioni di guerra ma chi chiede di essere esentato non è pazzo». Un paradosso, per testimoniare che dalla carneficina del conflitto è impossibile scappare. Più o meno è lo stesso film che - con regista e protagonisti assolutamente propri - il M5S sta proiettando a Roma riguardo i rapporti con il suo plebiscitato sindaco Virginia Raggi. Grillo si precipita nella Capitale, volano gli stracci (incredibile la messe di materiale teoricamente riservato: sms, telefonate, mail, che finisce sui media) mentre al proprio interno i Cinquestelle litigano su chi far ricadere le colpe di una impasse che ha dell'incredibile. Ma la sostanza non cambia: qualunque scelta venga fatta, il costo politico risulterà enorme. Comma 22 appunto: qualunque cosa fai, finisci impallinato.Si spiega così il braccio di ferro - chissà quanto in sintonia con l'algoritmo russoueiano della Casaleggio e associati - ingaggiato dal leader supremo con il primo cittadino romano, e che spiega bene la perversa alternativa che attanaglia entrambi. Se infatti la Raggi cede e sostanzialmente azzera la giunta, rimettendo indietro di cento giorni l'orologio della sua investitura, di fatto si spoglia di ogni autorità e diventa una sorta di robot nelle mani di Direttorii più o meno allargati. Peggio ancora se il tutto viene corredato da scuse ufficiali come reclamano a gran voce esponenti pentastellati di primo piano e i giornali fiancheggiatori. In siffatte condizioni altro che 67 per cento del consenso: al Campidoglio finirebbe per sedere un sindaco dimezzato e ultra depotenziato, obbligato a sottoporre ogni sua mossa ad una autorità esterna non solo alla giunta ma anche allo stesso Consiglio comunale nel quale ha la maggioranza assoluta.Se invece Raggi si impunta e rifiuta, è Grillo e l'intero M5S ad andare in tilt. E non per una questione di suscettibilità o immagine personale. Su Roma, lo sanno tutti, il Movimento ha puntato l'intera sua posta identitaria che si chiama capacità di governo. Una scommessa che è impossibile perdere. Ma è proprio qui che si annida il paradosso più stordente. Nei confronti della Raggi non può essere adoperato lo schema usato con il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti. Non si può, in altri termini, immaginare di prendere le distanze da Virginia arrivando addirittura, come qualcuno vocifera, a togliere il simbolo pentastellato alla giunta. Si tratta di una mossa preclusa dalla rilevanza stessa della posta in palio: vorrebbe dire sconfessare la vittoria più importante, quella che fatto rumore sui media internazionali e cambiato lo scenario politico italiano. Quale sarebbe stato, infatti, il tenore dei commenti e delle valutazioni del risultato elettorale amministrativo se i grillini invece di tracimare avessero perso il duello con il Pd di Giachetti? Il successo di Torino, seppur eclatante, non avrebbe certo avuto lo spessore e la rilevanza che ha avuto la doppietta con la conquista di Roma.Dunque Grillo non può sconfessare la Raggi perché verrebbe meno il gioiello più prezioso della collana di successi finora inanellata. E tuttavia neanche la Raggi può fare a meno del Movimento. Il perché è semplice. Vero che se china il capo, si dimezza. Ma vero anche che se perde l'appoggio del Movimento si trasforma in un sindaco politicamente apolide. Roma, con i suoi enormi e quasi irrisolvibili problemi, non può essere governata da un sindaco delegittimato. Il teorema secondo cui è impossibile fare il bis di Pizzarotti, seppur rovesciato, vale anche - e, verrebbe da dire, soprattutto - per la Raggi.Per ora paga solo Raffaele Marra, alemanniano vicecapo di gabinetto tuttofare. Basta? No, non basta. C'è anche un aspetto di classe dirigente da considerare, pure questo delicato e altamente rischioso. Nelle vicenda romana, molti hanno visto declinare le quotazioni di Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, fortissimo sponsor del sindaco e - vero o falso poco importa - frontman del grillismo di governo: è lui il più accreditato candidato premier pentastellato in caso di elezioni politiche. C'è chi assicura che adesso finirà in ombra. Si vedrà. Il punto però è che un candidato premier non si inventa: come a Roma, l'improvvisazione è la peggiore alleata. Se perciò Di Maio politicamente si eclissa non si tratta di una figurina che si sostituisce con un batter di ciglia mettendo Di Battista o Fico o chissà chi altro al suo posto. Fatto fuori Di Maio - che pure non era per nulla certo dell'investitura finale ma mediaticamente funzionava colmando un vuoto decisivo - in pratica i Cinquestelle si ritroverebbero a dover inventare quasi dal nulla un nome da contrapporre a Renzi. O a Parisi. Hai voglia a parlare di primarie, per di più via web: chi deve prendere in mano il Paese non esce dal cilindro (o dai calcoli meta-algebrici) di un pugno di decisori non meglio identificati. Al dunque è sullo spartiacque della capacità politica che i Cinquestelle rischiano di naufragare. Peccato sia il più importante.