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«Dal 14 luglio 1970 al 31 dicembre 1971 sono state denunziate 851 persone: di esse, 723 sono incensurate e circa 400 persone sono minori degli anni 25 mentre oltre 100 sono minori degli anni 18. Nello stesso periodo sono stati instaurati 144 procedimenti penali a carico di 269 persone» ( rapporto prefettizio del 21 luglio 1972). In realtà, nel dicembre 1975 risultavano ancora procedimenti giudiziari contro 562 persone. Non ci fu mai nessuna amnistia.
Dal 5 luglio al 13 ottobre 1970 si verificarono 103 scontri di piazza, più di uno al giorno.
Ci furono cinque morti – tre di cui erano civili: Bruno Labate, un ferroviere di 46 anni iscritto alla SFI- CGIL, rinvenuto esanime il 15 luglio 1970 in una strada del centro, dopo un assalto di manifestanti alle sedi del Pci e del Psi, contrari alla protesta, e cariche della polizia; Angelo Campanella, 43 anni, autista dell'Azienda Municipale Autobus di Reggio, per colpi d’arma da fuoco, negli scontri con la polizia il 17 settembre; un giovane barista, Carmine Jaconis, 25 anni, che passava da lì, l’anno dopo, durante l’anniversario per la morte di Campanella e nuovi scontri con la polizia: si sarebbe dovuto sposare venti giorni più tardi. Dei due militari morti, uno ebbe un attacco cardiaco e l’altro fu colpito da un sasso lanciato contro un treno che trasportava poliziotti alla stazione di Reggio Lido il 12 gennaio 1971.
A questi si possono aggiungere i sei morti per il deragliamento del treno del Sole alla stazione di Gioia Tauro il 22 luglio 1970 – benché le indagini iniziali fossero indirizzate verso un errore umano, e una sentenza definitiva abbia condannato tre persone decedute, tutte e tre crocevia di uno strano connubio tra estremismo neofascista e ‘ ndrangheta e agli atti del ministero dell’Interno risultino tra il 20 luglio 1970 e il 21 ottobre 1972, ben 44 gravi episodi dinamitardi, di cui 24 a tralicci, rotaie e stazioni ferroviarie.
E si può assommare Giuseppe Malacaria, 33 anni, muratore socialista, ucciso da una bomba a mano sotto la sede del Msi il 4 febbraio 1971 a Catanzaro durante una manifestazione antifascista contro un attentato la notte precedente alla sede del Consiglio regionale. E Giuseppe Santostefano, commerciante di 50 anni e simpatizzante missino, rimasto ucciso il 31 luglio 1973, a Reggio Calabria, ai margini di tafferugli dopo un comizio del Pci. Il 6 febbraio 1971 fu decretata la sospensione di tutte le manifestazioni e per quasi un anno, fino al 24 dicembre, circa seicentomila persone in tutta la provincia di Reggio restarono prive di diritti civili e politici. Ma tra fine gennaio e inizio febbraio in città ci furono venti giorni consecutivi di sciopero generale cittadino. Furono inviati migliaia di carabinieri e poliziotti, alloggiati nelle scuole cittadine che quindi dovettero sospendere ogni attività didattica, con i loro mezzi cingolati, e l’esercito stabilì distaccamenti lungo la linea ferroviaria che da Villa San Giovanni portava a Lamezia Terme. Eppure, spesso lungo quella tratta ci furono manifestazioni o sabotaggi che bloccarono il traffico ferroviario e lo stesso accadde l’ 11 ottobre 1970 per i traghetti che viaggiavano dalla e per la Sicilia, isolandola.
Barricate anche durature furono erette un po’ ovunque a Reggio e a Sbarre, uno dei suoi quartieri, per mesi sventolò la bandiera azzurra della neo- proclamata repubblica. E per mesi lanciò i suoi proclami e infiammò la mobilitazione, Radio Reggio Libera. Durante le “cinque giornate” di Reggio, dal 18 al 22 luglio 1970, venne assaltata e data alle fiamme la Questura e, in quel caso, il questore Santillo, che era giunto a Reggio nel 1967 e veniva dalla Squadra Mobile di Roma, dichiarò: «Possono bruciarci vivi ma noi non rispondiamo. Evacueremo l’edificio se necessario, ma non spareremo un colpo». Eppure, proprio alla brutalità della polizia in piazza si deve – secondo tanti – l’escalation della rivolta.
Che di questo stiamo parlando, della rivolta di Reggio Calabria e di un bel e documentato libro di Luigi Ambrosi ( La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970 – Rubbettino) che tutti questi dati e fatti contiene. E sono passati oggi cinquant’anni, ma tutto quello gnommero politico e sociale che la rivolta rappresentò sta ancora là. A interrogarci.
Perché se per un verso la rivolta fu il precipitato di un disastroso “meridionalismo” clientelare che affondava nei decenni precedenti e delle politiche di centro- sinistra tra il 1962 e il 1968 e quindi del brutale disvelamento di un bisogno di cambiamento che veniva disatteso, per un altro vi si possono leggere ancora fenomeni politici e sociali che riguardano l’attualità: retorica populista, anti- politica, identità territoriale. Di certo furono a migliaia i cittadini, i giovani e giovanissimi, le tante donne, gli artigiani, i commercianti, i professionisti, i lavoratori, che vi parteciparono.
Ambrosi lavora molto a dissipare i “luoghi comuni” sulla rivolta. Prima di tutto quello sul suo “campanilismo” – dato che fu innescata dalla decisione di eleggere Catanzaro capoluogo, nel varo dell’ordinamento delle Regioni a statuto ordinario – come se battersi per l’interesse territoriale, che poi poteva significare posti di lavoro, sviluppo, attività commerciale e imprenditoriale, fosse una sciocchezza plebea e non una forte motivazione e di carattere identitario, “sentimentale”, e di carattere lavorativo, economico. Poi, quella sul suo “segno fascista”: all’inizio, la protesta non aveva una forte connotazione di destra e anche la partecipazione fu trasversale – con giovani radicali di una parte e dell’altra ( Lotta continua, i marxisti- leninisti, gli anarchici) impegnati a “farsi interpreti” di una prospettiva più ampia, ma la sinistra istituzionale, dal Psi al Pci ai sindacati, fu decisamente ostile, invocando legge e ordine e posti di lavoro, anche a costo di una frattura con i suoi militanti: ne fa fede il comizio di Ingrao l’ 8 agosto, contestato dai suoi stessi compagni; per il Pci, si trattava di un “riflesso condizionato” come era stato di fronte ai moti d’Ungheria del ’ 56 e come sarà per i moti del Settantasette. La destra istituzionale, con il Msi, e quella eversiva, con Avanguardia nazionale e altri, invece, attraverso il Comitato d’agitazione, si pose alla testa della rivolta e ne disegnò un carattere irriducibile: il Boia chi molla! L’arco temporale va dal 14 luglio, primo sciopero cittadino convocato dal sindaco democristiano e da tutto il notabilato locale fino al 16 ottobre, quando, risolta la crisi di governo, il nuovo presidente del Consiglio Colombo tracciò le possibili linee di un “pacchetto per la Calabria”: a Cosenza sarebbe andata l’università, a Catanzaro il capoluogo e la Giunta regionale, a Reggio la sede del Consiglio e investimenti per il V Centro siderurgico ( che poi si sarebbe declinato nel porto di Gioia Tauro). Il carattere di massa della protesta iniziò a scemare, ma il rancore rimase e continuò a agire. È qui soprattutto che accade la “fascistizzazione” della rivolta, di cui godette la destra con le elezioni politiche del maggio 1972, con Ciccio Franco che entrò trionfale al Senato e il Msi che prese il 32 percento dei voti.
[caption id="attachment_267452" align="aligncenter" width="196"] Ciccio Franco, leader del Comitato d'azione durante un comizio[/caption]Poi, a ottobre del 1972, la grande manifestazione nazionale dei sindacati – Nord, Sud, uniti nella lotta – per un lato vissuta come “invasione”, per un altro come “recupero” di Reggio nell’alveo democratico.
Insomma, lo Stato democratico rispose solo con la repressione in un avvitamento con la violenza di piazza – ridiscutere le politiche per il Meridione era compito troppo arduo. Cinquant’anni dopo la rivolta, la Calabria è sempre lì, abbandonata a se stessa: rimuovere la memoria della rivolta o limitarsi a stigmatizzarla è la cosa più semplice da fare.