A partire appunto dagli esiti di vicende processuali come quelle di Del Turco e Penati, che arrivano dopo la distruzione delle rispettive carriere.

Presidente Violante, è il momento che i partiti si facciano coraggio e si accordino in modo da non invocare più l’uno le dimissioni degli indagato dell’altro? 

Prima di tutta una precisazione.

Prego.

C’è una Procura che indaga e un Tribunale che assolve. Una certa leggerezza riguarda la Procura, non riguarda i giudici.

Chiarissimo.

Nel merito: basterebbe smetterla di usare le indagini come arma per colpire l’avversario. Finché continua a farlo, la politica autoproclama la propria subalternità alle Procure. Lo fa anche con leggi come la Severino. Nell’approvarla, il Parlamento ha sancito una subordinazione della politica alle iniziative degli uffici inquirenti. Se i partiti riuscissero a espellere dalle proprie contese le vicende giudiziarie, renderebbero più civile la politica, e alla magistratura resterebbe assegnata la sola responsabilità penale.

Elementare. Perché non ci si arriva?

Intanto è chiaro che se ci arrivasse, la politica recupererebbe un enorme elemento di autonomia. Un partito dovrebbe sentire la responsabilità di decidere da solo come regolarsi se un proprio esponente viene coinvolto in una vicenda giudiziaria. Ci può essere responsabilità politica anche in fatti che non rilevano penalmente, così come può esserci una responsabilità penale senza che le corrisponda una responsabilità politica. Sono o non sono, i singoli partiti, in grado di stabilirlo, da soli, per ogni singola vicenda?

E invece si resta bloccati: tendenzialmente garantisti con i propri indagati, quasi sempre spietati se l’inchiesta riguarda l’avversario.

Però osservo anche la parabola dei cinquestelle. All’inizio affermavano che bastava il semplice sospetto per essere espulsi, adesso pare colgano la notevole invasività del penale nel campo della politica. Cominciano a capire che si deve evitare di considerare la comunicazione giudiziaria come un talmud. Altrimenti si torna a padre Pintacuda.

A cosa si riferisce?

Alla frase ormai celebre secondo cui il sospetto sarebbe l’anticamera della verità. Era la Palermo del primo Leoluca Orlando, e da presidente dell’Antimafia mi permisi di contestare quell’assunto. Padre Pintacuda mi attaccò come fossi un traditore.

Le vecchie crociate contro Berlusconi impediscono oggi al Pd di essere garantista?

Non credo. È vero che c’è ancora un’anima del Pd secondo cui si deve aggredire comunque l’avversario, ma è residuale. In passato è stata prevalente. Ricordo che davanti alla giunta per le Autorizzazioni, a proposito di Berlusconi, spiegai come non fosse possibile difendere solo i diritti dei propri soci… Molti dissero ‘ non ho letto le carte ma voterò comunque contro di lui’. Fu una cosa pesante, mi colpì molto.

Oggi nel Pd non prevale più quell’anima eppure i sequestri ai corrotti sono diventati legge: com’è possibile?

Senta, capisco la semplificazione, ma intanto ricordiamoci di dire ‘ sequestri agli indiziati di corruzione’. Ecco di cosa stiamo parlando. Dopodiché, l’ho detto in tutti i modi: guardate che è una cosa grave, sequestrare l’azienda a un imprenditore sulla base di un sospetto di corruzione vuol dire chiuderla. Due o tre anni e non resta più nulla. L’antropologia del’indagato per mafia è assai diversa da quella di chi può finire in un’inchiesta per corruzione.

Il secondo non regge il colpo?

Non lo regge sul piano economico oltre che esistenziale. Chi esce assolto da un’accusa di mafia, se comunque fa parte di quel contesto sociale riesce a rimettersi in carreggiata. Se a un imprenditore innocente porti via tutto non si riprende più. Quale banca gli farà credito, una volta che gli hanno sequestrato i beni? E poi: quante volte sentiamo di sequestri di prevenzione nei confronti di aziende appartenenti a sospettati di mafia che una volta acquisite dallo Stato vanno a rotoli? Sa qual è la conseguenza del fenomeno? Che si dice ‘ meglio la mafia che dà lavoro anziché lo Stato che te lo toglie’.

Eppure il Codice antimafia è legge.

È il frutto di una certa logica: l’eccesso di inseguimento della teoria salvifica della pena. Sopravvive in alcuni rigagnoli culturali, ma sopravvive. E non in un solo partito: è una visione trasversale. Che trasfigura a loro volta coloro che somministrano la pena, magistrati compresi, in salvatori e taumaturghi.

Solo che investire tanto sulla pena come catarsi è devastante, in una fase come questa. Di fronte alle paure si genera, come forma di difesa, la frammentazione sociale, che la fiducia nella pena alimenta a propria volta. Spero davvero che correggano il Codice antimafia: rischiamo di assistere a imprenditori che diffondono sospetti nei confronti di loro concorrenti per liberarsene.

Un incubo. Senta, ma tutte queste assoluzioni, in capo a procedimenti partiti ormai dieci anni fa, segnalano che c’è stato un periodo in cui i pm si sono un po’ lasciati prendere la mano?

L’unica risposta possibile è lunga e un po’ complessa. Il tema è nella distinzione tra i processi fatti per tipo di reato e per tipo di autore. Nel nazismo prevalse il secondo modello culturale. In base alla seguente logica: un comunista o un ebreo commetteranno prima o poi un reato, a questo punto non aspettiamo, tanto vale arrestarli prima. Ecco, il politico è diventato un tipo di autore: è un politico, figuriamoci se non ha fatto qualcosa.

Da brividi.

È il segno di quanto sia autoritario un approccio giustizialista. Io sono un legalitario, chi si lascia guidare dal giustizialismo opta in modo chiaro per una forma autoritaria perché concede al potere di repressione un potere di ripristino dell’ordine sociale.

Si fa ancora in tempo a sterzare, prima di finire nel baratro?

Una strada c’è. Si ragiona troppo di forma– partito, ma si dovrebbe riflettere di più sulla sostanza– partito. La politica ha bisogno di ritrovare autonomia e forza. Cominci da questo.