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C’è un passaggio che fa riflettere, nelle motivazioni con cui la Cassazione ha annullato con rinvio l’obbligo di dimora imposto a Mimmo Lucano. Ed è quello in cui i giudici, nel valutare il ragionamento del Riesame di Reggio Calabria sulle esigenze cautelari, parlano di «non previste valutazioni di ordine morale». Qualcuno, insomma, aveva già condannato moralmente - andando al di là del proprio compito - Lucano, costringendolo fuori da Riace sulla base di esigenze che si poggiano su circostanze «irrilevanti», ritenute anche nella prima ordinanza cautelare «prive del necessario fondamento giustificativo». Così come il richiamo a presunti matrimoni di comodo poggia su un quadro «sfornito di elementi di riscontro», sebbene sia valutato positivamente il ragionamento logico alla base della contestazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Sono parole eclatanti quelle contenute nel documento depositato martedì al Palazzaccio. Un documento con il quale Mimmo “il curdo”, sindaco sospeso di Riace, finito prima ai domiciliari e poi costretto ad andare via dal suo paese, viene di fatto riabilitato, sbriciolando un impianto accusatorio giudicato debole già dal giudice per le indagini preliminari. Oggi il sindaco sospeso si troverà davanti al gup, che dovrà decidere se rinviarlo a giudizio, assieme ad altre 30 persone, per associazione a delinquere, truffa con danno patrimoniale per lo Stato per oltre 350mila euro, abuso d’ufficio ottenendo un ingiusto vantaggio patrimoniale per oltre 2 milioni di euro, peculato distraendo fondi pubblici per oltre 2.400.000 euro, concussione, frode in pubbliche forniture, falso e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma le motivazioni della Cassazione certificano un primo importante fatto: la carenza di fatti concreti a sostegno dell’accusa di frode e del condizionamento nella scelta del soggetto a cui affidare la raccolta dei rifiuti. Effettuata con atti collegiali, e non - come ipotizzato dalla Procura di Lori - come atto d’imperio del sindaco sospeso di Riace. Non potrà ancora tornare a casa sua, Lucano, ma rimane un fatto: di indizi che supportino il dubbio di comportamenti illegali non vi è traccia. Anzi, quegli affidamenti diretti, sotto soglia, erano possibili e tutti certificati da pareri di regolarità tecnica e delibere approvate anche in sua assenza.
L’appalto per la raccolta differenziata. L’accusa sintentizzata al capo T riguarda l’affidamento della raccolta differenziata a due cooperative sociali, la “Ecoriace” e L’Aquilone”, prive, secondo l’accusa, dei requisiti di legge in quanto non iscritte nell’apposito albo regionale previsto dalla normativa di settore. Un problema bypassato istituendo un albo comunale delle cooperative sociali tramite cui poter affidare direttamente, secondo il sistema agevolato previsto dalle norme, lo svolgimento di servizi pubblici e impedendo «l’effettuazione delle necessarie e previste procedure di gara», che prevedevano la procedura del cottimo fiduciario. Secondo i giudici della Cassazione, però, non ci sono fatti concreti a sostegno dell’accusa. «Il requisito del mezzo fraudolento e lo stesso fine di condizionamento del procedimento amministrativo finalizzato alla scelta del soggetto affidatario del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani - si legge - non emergono con la necessaria chiarezza e coerenza argomentativa». E questo sia in ragione del carattere collegiale delle delibere e di tutti gli atti amministrativi adottati sulla base di pareri di regolarità tecnica e contabile «sempre sottoscritti anche dal segretario comunale e dagli altri funzionari tecnici coinvolti nelle relative sequenze procedimentali», sia in ragione «della evidente notorietà dell'iniziativa (pubblicizzata anche attraverso l'istituzione di un albo comunale) e della oggettiva connotazione di peculiarità - espressamente riconosciuta anche nei provvedimenti amministrativi via via susseguitisi nel tempo - del servizio pubblico loro affidato, e a suo tempo fatto oggetto di una specifica valutazione di fattibilità espressa con la delibera comunale che stabiliva il ricorso alla modalità "dell'asinello porta a porta" per la raccolta dei rifiuti urbani».Per l’accusa quelle cooperativa avrebbero dovuto essere iscritte all’albo regionale delle cooperative sociali. Ma all’epoca dei fatti, scrivono i giudici, quell’albo non esisteva. E ciò almeno fino alla data del 7 marzo 2016. L’ordinanza del Riesame, che imponeva il divieto di dimora a Riace, non forniva, dunque, «elementi di gravità indiziaria» tali da avvalorare l’accusa. Anzi, non emergono con la necessaria chiarezza «gli atti o i comportamenti che l'indagato avrebbe materialmente posto in essere per realizzare in concreto una serie di condotte che, allo stato, paiono solo assertivamente ipotizzate, e le cui note modali, peraltro, non vengono sotto alcun profilo tratteggiate, rimanendo addirittura contraddette dalla connotazione di collegialità propria di tutti gli atti di affidamento» e dai «pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato».
I matrimoni di comodo. Non c’è dubbio, secondo la Cassazione, che Lucano volesse aiutare la compagna, Lemlem Tesfahun, a portare suo fratello in Italia, arrivando con lei in Etiopia e collaborando al suo tentativo di sposarlo con documenti falsi per garantirgli un permesso di soggiorno. Gesti compiuti, come affermato nella decisione che riguarda la Tesfahun, «probabilmente per finalità moralmente apprezzabili». Ma il dubbio che si insinua nella validità dell’impianto accusatorio è un altro. Per la Procura, infatti, quello di combinare matrimoni tra cittadini di Riace e donne straniere sarebbe stato un «metodo» per garantire il permesso di soggiorno alle immigrate che chiedevano aiuto al sindaco. Ma per i giudici, «il richiamo a presunti matrimoni di comodo favoriti dall'indagato poggia sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale non solo sfornito di significativi e precisi elementi di riscontro ma, addirittura, escluso da qualsiasi contestazione formalmente elevata in sede cautelare».
Le esigenze cautelari. Sul punto i giudici sono chiari: gli scarni passaggi motivazionali dell’ordinanza «non si dedicano ad illustrare, con puntuali argomentazioni, gli elementi ritenuti, oggettivamente e soggettivamente, sintomatici della concretezza e dell'attualità dell'enunciato pericolo di reiterazione di delitti "della stessa specie di quello per cui si procede", ma risultano basati, sotto tale profilo, su affermazioni del tutto apodittiche ed irrilevanti ai fini del richiesto vaglio delibativo, perché estranee ai contorni propri delle vicende storico fattuali oggetto dei temi d'accusa». Insomma, non è chiaro il motivo per cui, da sei mesi, Lucano non possa continuare a fare il sindaco del suo paese. Le circostanze poste alla base di tale decisioni sarebbero, di fatto, «asintomatiche, solo genericamente individuate ovvero irrilevanti» ai fini di una valutazione circa la concretezza ed attualità del pericolo, in quanto «già ritenute, finanche nella prima ordinanza cautelare, prive del necessario fondamento giustificativo derivante da un positivo esito del preliminare vaglio di gravità indiziaria, o addirittura basate su non previste valutazioni di ordine morale».
Il commento di Lucano. Si dice contento, ma pronto «a difendermi nei processi, non dal processo». Un accenno, nemmeno troppo velato, al ministro dell’Interno Matteo Salvini, che non sarebbe uguale a lui davanti alla legge, afferma il sindaco sospeso. «Chi ha la forza e la possibilità sta lontano dai processi - spiega al Dubbio - Questo primo passo della Cassazione porta un po’ di luce su questa aria torbida che si è creata attorno a me e al messaggio politico, all’idea che rappresenta Riace, che evidentemente ha preoccupato qualcuno». Un’avversione politica che va avanti da tempo, afferma Lucano. «Il giudizio della Cassazione è consequenziale a quello che aveva detto il gip - aggiunge - che aveva demolito l’impianto accusatorio costruito dopo mesi di intercettazioni. Lo stesso giudice aveva sottolineato come io non abbia rubato nulla: non ho niente, come emerge dagli accertamenti patrimoniali. Io appartengo alla dimensione di precarietà dei rifugiati. Mi sono trovato ad occuparmi di loro per caso, ma poi è diventata una mission, che è servita al territorio, perché abbiamo ripopolato le aree interne, condividendo un’idea di riscatto dei luoghi della nostra terra». Ma anche e soprattutto «un’idea di giustizia per gli ultimi. Abbiamo collegato le nostre precarietà e questo ci ha portato anche ad avere questa idea di comunità multietnica, dove il contributo economico diventava collettivo per i proprietari delle case, per gli esercenti, per gli operatori. Un progetto di cui aveva parlato il mondo».
Le accuse. A Lucano non vanno giù soprattutto le due accuse che gli sono costate le esigenze cautelari. A partire dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Mi sembra paradossale che lo contestino proprio a me - sottolinea - Il reato lo commette chi costringe migliaia e migliaia di esseri umani a intraprendere questi viaggi della speranza, chi li obbliga a vivere con meno di un dollaro al giorno, chi vende armi, chi esporta guerre. Mi sono occupato dei matrimoni degli ultimi, senza discriminazioni, come dice la Costituzione italiana. Non di matrimoni con auto di lusso fuori dal municipio, carrozze o elicotteri, né tra famiglie che cementano legami di sangue di mafia. Noi ci siamo costituiti parte civile contro la mafia, non come il Viminale, che si è costituito contro di noi ma non nel processo che riguarda i 49 milioni di euro occultati dal suo partito».
La nuova polemica con Salvini. E qui s’innesta l’ennesima polemica con il ministro dell’Interno. «Perché scappare dai processi e utilizzare l’escamotage dell’immunità?», si chiede Lucano riferendosi a Salvini. «Quando uno non ha nulla da nascondere, fuggire dai processi è un atto di vigliaccheria. Hanno distrutto una comunità, rimangono solo le ferite di quello che è successo». E la risposta del ministro arriva a stretto giro. «Non ho paura, anche perché ne avrò altri di processi da affrontare - afferma - Se avessi paura non farei il ministro dell’Interno. Per me ha deciso il Senato, dunque il popolo italiano, io quello che ho fatto l’ho fatto nell’interesse del popolo italiano, non sono un Sindaco che fattura sull’immigrazione». E riferendosi alle accuse rivolte a Lucano, chiarisce come «al di là di reati che possono esserci o possono non esserci, quello di Riace è un modello di sviluppo sbagliato. Io fossi un sindaco della Calabria, della Campania e della Lombardia non penserei a risolvere i problemi con la deportazione dei migranti».
Cosa resta di Riace. «Manco da sei mesi - dice amaramente il sindaco sospeso - non so se questa esperienza che ho vissuto lascerà un segno e in quale direzione lo lascerà e quali sono gli umori dentro la comunità. Eravamo abituati ad avere un fermento culturale, un laboratorio politico, ma in pochi mesi tutto è cambiato. La mia impressione è che quello che ha preoccupato è non tanto il modello Riace ma il messaggio politico che porta dietro - conclude - A Riace non c’è un’accoglienza neutrale. Io vengo giudicato dai tribunali, ma il giudizio che ha dato il Papa sul principale soggetto di quella prospettiva di disumanità oggi diffusa è molto più grave. Preferirei finire in galera che subire un simile giudizio da chi si schiera per i più deboli». Ora, probabilmente, ci sarà un processo. «Bisogna soffrire un po’ ancora - conclude - Ma io non ho più paura di nulla, la mia vita la metto là. Non ho altri supporti se non quelli di chi mi vuole bene. Sono contento di aver condiviso questo ideale».