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L’anno in cui lo arrestarono Leonid Breznev prende le redini dell’Unione sovietica, Aldo Moro diventa per la terza volta presidente del Consiglio, la Francia di De Gaulle abbandona la Nato e i Beatles pubblicano Revolver, il loro settimo album. Era il 1966 e Iwao Hakamada aveva appena vent’anni; l’accusa che le autorità giapponesi gli rivolgono è pesantissima: l’incendio della fabbrica in cui lavorava e l’omicidio del suo principale, della moglie e i due figli. Il movente? Il furto dei 200mila yen chiusi nella cassaforte della fabbrica. Hakamada viene interrogato per giorni e giorni in sedute lunghe 16 ore senza la presenza di un avvocato: lo picchiano a sanguer, lo privano del sonno, del cibo, dell’acqua, una tortura incessante che lo piega e lo spinge ad ammettere i delitti. Nessun sistema democratico potrebbe tener conto di quella confessione estorta con la forza, ma per la giustizia giapponese è sufficiente per stabilire la sua colpevolezza. Due anni dopo la sentenza del tribunale di Shizuoka: condanna all’ipiccagione. La data? Da stabilire. Tanto che Hakamada ha passato quasi mezzo secolo nel braccio della morte in attesa dell’ora fatale che secondo la prassi del paese nipponico viene comunicata al condannato il giorno stesso: mai nessun prigioniero ha subito un simile trattamento nella storia della giustizia moderna.
Nel frattempo l’ex pugile. recluso sotto un regime di isolamento speciale ( niente tv, visite limitate e sorvegliate, divieto di uscire dalla cella) ritratta la confessione, accusa la polizia di aver utilizzato la forza per farlo parlare. I suoi avvocati chiedono la revisione del processo che non viene accordata, ma almeno l’esecuzione slitta di proroga in proroga. Fino alla svolta: nel 2008 viene effettuato un test del Dna raccolto dai corpi delle vittime che risulta incompatibile con quello di Hakamada che, al contrario, è del tutto assente dalla scena del delitto ; la traccia appartiene a qualcun altro. Il caso finisce prima sui media giapponesi, poi su quelli internazionali. La pressione sulle istituzioni diventa continua e nel 2014, a 48 anni dall’arresto, l’alta corte di Tokyo proscioglie Hakamda per insufficienza di prove. La sua libertà viene salutata dall’opinione pubblica e accompagnata dalle scuse dell’ex capo della polizia e poi deputato Shizuka Kamei, che si inchina personalmente davanti l’ex detenuto. L’incubo sembra ormai finito, anche se nessuno potrà mai restituirgli mezzo secolo di crudele detenzione in cui è stato fiaccato e umiliato, vittima di persecuzione giudiziaria e di crudeltà . Ma a Hakamada non basta avere riavuto la sua libertà, vuole che la sentenza di omicidio sia cancellata e tramite i suoi legali la scorsa settimana è riuscito ad ottenere dalla Corte suprema giapponese la revisione completa del processo fino a quel momento negata dai giudici: «Siamo davvero contenti di questa notizia, ci tremano le mani perché finalmente abbiamo ottenuto la giustizia che ci è stata negata per mezzo secolo», ha commentato il suo legale Yoshiyuki Todate.