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Lorenzo Patta, Lamont Marcell Jacobs, Fausto Desalu, Filippo Tortu. Segnateveli, questi quattro nomi, perché di loro ci ricorderemo nei decenni a venire, quando ripensando all’incredibile Olimpiade di Tokyo 2020 torneranno alla mente istanti immortali. Di loro ci ricorderemo perché sono arrivati lì dove nessuna staffetta italiana era mai arrivata prima, a toccare con mano la gloria d’Olimpia vincendo al cardiopalma la finale della 4x100 maschile.
L’hanno fatto con un solo centesimo di vantaggio sulla Gran Bretagna, un battito di ciglia che spesso divide la gloria dall’oblio e che farà contorcere di disperazione i cugini d’Oltremanica, dopo la finale di Euro 2020 persa ai calci di rigore.
La gara è di quelle che resteranno negli annali dell’atletica leggera: allo start c’è Lorenzo Patta, splendido ventunenne sardo all’esordio in una gara olimpica. Parte bene, Lorenzo, e dopo cento metri corsi in apnea ha il compito non facile di passare il testimone a Lamont Marcell Jacobs, la freccia nata a El Paso, in Texas, ma trasferitosi con la madre sulle rive del Garda quando i suoi piedi erano ancora troppi piccoli per pensare, un giorno, di correre così veloce.
Da vincitore dei 100 metri piani Jacobs è il più atteso, e non delude. Corre la sua frazione staccando gli altri corridori, e quando al suo fianco i giapponesi steccano il cambio lui rimane tranquillo e passa senza problemi il testimone a Fausto Desalu, italianissimo di Casalmaggiore che corre, corre, corre e poi urla a squarciagola «vaiiii» subito dopo aver lanciato Filippo Tortu, brianzolo di padre sardo cui spetta il compito decisivo. «Sta per succedere una cosa», pronostica Franco Bragagna, leggendario telecronista della Rai che abbiamo imparato a conoscere nelle nottate insonni a seguire le imprese dei nostri atleti nella terra del Sol Levante.
Siamo al rettilineo finale, la Gran Bretagna ci affianca, Jamaica, Canada e Cina sono leggermente dietro. A questo punto accade quello che tutti avremmo voluto ma che nessuno di noi si era spinto a immaginare. La tecnica di corsa di Tortu, prima italiano ad abbattere il muro dei dieci secondi nei 100 metri prima dell’esplosione di Jacobs, è perfetta. Macina metri su metri, il suo corpo taglia il vento come solo Pietro Mennea e Livio Berruti sapevano fare. A meno di dieci metri dall’arrivo, il sorpasso decisivo. Il britannico Nethaneel Mitchell- Blake è in affanno, la sua corsa ondeggia. Filippo è statuario. Arrivano al traguardo praticamente appaiati.
Buio.
Il cuore si ferma per un istante che sembra infinito.
Quando Tortu riapre gli occhi ha le mani nei capelli, il boato dell’Italia intera sferza l’aria e arriva dritto allo Stadio Olimpico di Tokyo. Non si rende conto, Filippo, sembra non crederci. Guarda il maxischermo dove la dicitura “Italia: Gold Medal” si staglia lucente nel vuoto degli spalti dove riecheggia “Un’estate italiana: notti magiche” di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato. A quel punto, scoppia in un pianto a dirotto.
È il pianto di un’Italia che dopo un anno di mezzo di malattia, chiusura e distanza ha saputo riscattarsi durante un’estate piena d’orgoglio, che è partita dalla nazionale di pallacanestro che batte la Serbia a Belgrado e si conquista il pass olimpico e arriva fino alla magica notte di Tokyo, passando per l’abbraccio tra Vialli e Mancini a Europeo appena conquistato. Ma è anche il pianto di Luigi Busà, oro nel karate - specialità kumitè, che urla «mamma, papà, ce l’ho fatta» subito dopo essere diventato campione olimpico. È il pianto di una marcia tornata fucina di medaglie per il nostro Paese come ai tempi di Ivano Brugnetti e Alex Schwazer, al quale quest’Olimpiade, così come quella di Rio, è stata tolta da una congiura per la quale non ci sarà mai risarcimento. È il pianto incontrollato di Gianmarco Tamberi, che dopo essere salito lì dove arrivano solo gli dèi ha aspettato Jacobs “con due occhi più grandi del mondo”. È il pianto di Vito Dell’Aquila, di Federica Cesarini e Valentina Rodini, di Caterina Banti e Ruggero Tita e dei ragazzi dell’inseguimento su pista. È il pianto del presidente del Coni, Gianni Malagò, che descrive l’Olimpiade di Tokyo 2020 come «la più grande di sempre» dopo il record assoluto di medaglie, meglio di Los Angeles 1932 e Roma 1960. È, infine, il nostro pianto. Se stiamo sognando, vi prego, non svegliateci.