Il Center for the National Interest è un think thank repubblicano fondato nel 1994 da Richard Nixon. Si dice pronto a sfidare il buon senso convenzionale e la political correctness in politica estera. Il suo motto sono le parole che disse Nixon nel fondarlo: «I’m not a big fan of think tanks, but this is a different one – Non sono un gran sostenitore dei think thank, ma questo è diverso». È dal Center che è arrivato l’invito a mister Trump a parlare delle sue visioni di politica estera. Il 27 aprile, a Washington, Trump ha fatto il suo speech davanti a una sala repubblicana di prim’ordine. E già questo è interessante per due motivi. Il primo, perché l’ostilità che ha incontrato nei piani alti del partito dalla sua candidatura va evidentemente sfumandosi dopo la sua inarrestabile cavalcata verso la nomination – peraltro, è di questi giorni l’annuncio di Paul Ryan, speaker repubblicano della Camera, di appoggiare Trump- come dire: diamogli l’opportunità, vuoi vedere che questo davvero ce la fa? Il secondo, perché la politica estera significa il ruolo degli Stati Uniti nel mondo è esattamente il punto su cui – insieme alla rivendicazione della storia dei diritti civili – si è caratterizzata la presidenza Obama, insistendo sulla multipolarità delle potenze, guardando molto al Pacifico, riducendo tantissimo le truppe americane impegnate in Afghanistan e Iraq e utilizzando invece le tecnologie, rifiutandosi di mettere di nuovo gli scarponi sul terreno in qualche scenario di guerra, aprendo alle primavere arabe, insistendo con Israele per un ruolo differente nella regione, chiudendo una trattativa con l’Iran sul nucleare, finendo l’embargo con Cuba e andando lì per uno storico incontro, come storica può essere definita la visita a Hiroshima e il suo discorso contro le guerre. C’è di che poter dire che la presidenza Obama lascerà un segno importante. Trump, nel suo discorso, rovescia tutto questo, additandolo come un peccato mortale, come l’origine dell’indebolimento dell’America, e addossandolo anche a Hillary Clinton che di Obama è stata Segretario di Stato – esattamente capovolgendo le cose; Obama ha preso atto di un mondo diverso e ha provato a collocare diversamente il ruolo degli Stati uniti, non più il “gendarme del mondo”. Trump, invece, insiste molto sul fatto che l’America debba riconquistare la sua potenza, e la sua potenza militare prima di tutto.Bill Emmott sul Guardian ha definito il probabile prossimo scontro a novembre tra Clinton e Trump come la prima volta in cui due candidature di Democratici e Repubblicani divergono in modo così sostanziale,  as different as chalk and cheese, diversi come gesso e formaggio. Non c’era una tale distanza tra Reagan e Carter, o Clinton e Bush, o Bush e Gore, o Obama e McCain. Project Syndicate scrive che con la candidatura Trump «le maniere della reality Tv che hanno cannibalizzato la cultura popolare americana per due decenni ha raggiunto il suo punto più alto». E forse, questo è un nodo che non tocca solo l’America.C’è chi ha parlato del nostro tempo come di una “democrazia recitativa”. Uno studio sulla reattività degli elettori alle apparizioni televisive dei candidati dice che prendono poco in considerazione le posizioni che vengono espresse ma il come vengano dette. Trump – un linguaggio piano, un vocabolario ridotto al minino, l’uso di espressioni colorite, una assertività continua – sembra un mago della recitazione. D’altronde, benché aleggi su di lui l’ombra di speculazioni e di traccheggi immobiliari, è sempre l’autore del bestseller del 1987, The Art of the Deal. Dalla sua, ha il vantaggio che Hillary Clinton sembra rappresentare una garanzia di continuità di potere dell’establishment, cioè quella che si presenta come una affidabilità di esperienza al servizio del paese si rovescia nel contrario – perché Washington, come ogni altra capitale politica del mondo, viene oggi vissuta dagli elettori come “la città del male”. Trump può rappresentare il leader di un populismo transnazionale – d’altronde, questo è il cuore del suo discorso, America First, l’America prima di tutto – che può, e in parte già sta, modificare gli assetti geopolitici del mondo.In generale, si pensa che la radicalità di posizioni espresse durante la campagna presidenziale venga poi temperata nel corso del mandato. Nel caso di Trump però questo può anche non accadere, perché la sua è stata davvero una candidatura anomala. Trump potrebbe davvero perseguire quello che sta predicando. E non solo rispetto i muri sui confini per fermare gli immigrati che rubano i lavori americani, o l’idea di abbattere il debito pubblico americano ricontrattandolo con i suoi creditori, o il sospetto che ogni musulmano nasconda un possibile terrorista, o la volontà di considerare tutti i trattati e gli accordi internazionali come carta straccia e da riscrivere da capo. Soprattutto, inseguendo questo concetto che la “forza militare” sia la politica migliore per riconquistare all’America il ruolo guida nel mondo. Una nuova corsa agli armamenti spingerebbe di nuovo il mondo verso una spirale militare da incubo. Questa determinazione sulla “forza” – e gli investimenti relativi – può d’altra parte suonare come musica per le orecchie di quello che Eisenhower definì il complesso militare-industriale americano. Come dire, la possibilità di ritrovarci Trump presidente comincia a farsi reale. Speriamo il meglio, ma prepariamoci al peggio. Qui di seguito, l’intervento di Trump al Center for the National Interest. Ne diamo un ampio stralcio e troverete sul sito del giornale l’intero intervento. Nessuno in Italia lo ha tradotto e preso in considerazione. Forse, è il caso che cominciamo a spalancare gli occhi. Forse dobbiamo prepararci a un’America meno amichevole.