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Nel suo ufficio di New York occhieggia una targa dorata che recita testuale: “Make Court great again!”.
Ha sempre avuto il pallino della giustizia Leonard Leo, fin dagli anni del liceo quando denunciò i suoi compagni di classe che avevano occupato la scuola per manifestare contro l’apartheid in Sudafrica.
Avvocato di successo nato nel New Jersey 53 anni fa, oggi è il Presidente della Federalist Society, un’organizzazione di giuristi tradizionalisti che sostiene una lettura restrittiva e testuale della Costituzione americana.
Finanziatore dei gruppi pro- life e dei tea party, organizzatore di reti no- profit negli ambienti più conservatori del Paese, fedelissimo di Donald Trump, Leo, che preferisce muoversi nella penombra, che non ama le intemerate davanti ai media, non è molto noto al grande pubblico, ma la sua influenza sulla Casa Bianca si sta rivelando capitale.
È lui l’architetto della nuova Corte Suprema, l’uomo che ha suggerito al presidente le nomine dei giudici ultraconservatori Brett Kavanaugh e Neil Gorsuch, nomine che hanno definitivamente spostato a destra il terzo ramo del governo statunitense.
Non stiamo parlando di un semplice lobbista come ce ne sono a migliaia negli ambienti della galassia trumpiana ma di un autentico intellettuale dal cuore nero, con idee molto chiare e in testa smisurate ambizioni, non tanto per sé quanto per la sua nazione.
Nei primi anni 2000 quando era consulente giuridico per l’amministrazione di George W. Bush non nascondeva l’insofferenza per quel presidente circondato da consiglieri “neocon” con il sogno di esportare la democrazia ma che per lui restava troppo progressista sulle questioni dei diritti civili, troppo vicino alle minoranze etniche, alle istanze degli ispanici e degli afroamericani.
«Siamo alla vigilia di un epoca esaltante per l’America, in pochi hanno capito le trasfor-mazioni profonde che stanno avvenendo nel nostro sistema giudiziario, è qualcosa che avrà una portata epocale», ha detto lo scorso febbraio in una riunione a porte chiuse del Council for National Policy di cui il Washington Post ha ottenuto una registrazione audio. Non si tratta solo di “clima” politico, di egemonia culturale, di propaganda diffusa, l’obiettivo di Leo è molto preciso: «Dobbiamo tornare al passato, a governi costituzionali limitati, qualcosa che nel nostro paese non accade dal periodo che precedeva il New Deal». Cosa intende esattamente?
L’età dell’oro evocata da Leo è in realtà uno dei periodi più bui della recente storia americana, parliamo degli anni 30 con la Grande Depressione che divorava il lavoro e impoveriva decine di milioni di famiglie, il proibizionismo, l’alcolismo di massa, la mancanza di assistenza medica per i malati.
Sul piano dei diritti costituzionali le cose stavano persino peggio.
I giudici della Corte Suprema erano uno strumento feroce per il mantenimento della segregazione razziale e delle disuguaglianze, tra bianchi e neri, tra ricchi e poveri, tra uomini e donne. Nel 1927 gli alti magistrati confermarono all’unanimità l’esclusione di una bambina di origine cinese da una scuola del Mississippi in quanto di «razza gialla» e, negli anni seguenti, gli istituti scolastici di 21 Stati applicavano la segregazione in tutta legalità.
Le discriminazioni legittimate dalla Corte ricoprivano tutta la vita civile degli afroamericani, tanto che nel sud degli Stati Uniti solamente l’ 1% di loro era iscritto sulle liste elettorali pur rappresentando oltre un terzo della popolazione. D’altra parte era quasi impossibile accedere a quelle liste per i neri i quali, tra i tanti requisiti, dovevano esibire un “certificato di moralità” che nessun ufficio pubblico era disposto a rilasciare.
Emblematico il caso dell’Alabama dove nel 1903 lo Stato ha affermato la «supremazia della razza bianca» impedendo ai neri il diritto di voto, decisione che la Corte Suprema si rifiutò di cassare dichiarandosi «impotente» in materia. Anche la popolazione di sesso femminile non possedeva de jure gli stessi diritti dei maschi, dagli orari di lavoro al salario, alla contraccezione, punita addirittura con la reclusione negli Stati più conservatori.
Sul piano delle garanzie degli indagati nella prima metà del 900 la situazione negli Stati Uniti era lontana anni luce dai criteri elementari dello Stato di diritto: la polizia poteva estorcere confessioni alle persone arrestate con la violenza senza che i malcapitati potessero ricorrere a un avvocato e le “prove” ottenute illegalmente venivano messe agli atti dei processi spesso consumati in modo sommario.
E le esecuzioni capitali non risparmiavano nessuno, nemmeno i minorenni come nel celebre caso del 14enne George Stinney, condannato a morte nel 1944 per l’omicidio di due bambine bianche in South Carolina. Venne interrogato da solo, senza i genitori e natural- mente senza qualsiasi forma di assistenza legale e fu condannato a bruciare sulla sedia elettrica dopo un processo durato due ore in cui non poté nemmeno ricorrere in appello.
Ci sono voluti 70anni perché la giudice Carmen Mullins annullasse la sentenza di colpevolezza basata su un’ inchiesta e un processo completamente illegali. Settant’anni. È questa l’epoca magica vagheggiata da Leonard Leo e, in generale, da tutta la nuova destra americana, che da quando Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca ha ritrovato linfa e vigore per riprendere in mano le antiche battaglie.
Esagerazioni? Forse, ma le cronache d’oltreoceano non rassicurano affatto i sostenitori della giustizia post- new deal che, con non poca fatica, sancì l’uguaglianza razziale, sessuale e sociale dei cittadini accompagnando le stagioni dei diritti negli anni 60 e 70.
L’approvazione delle leggi ultra- restrittive sul diritto all’aborto approvate in Georgia, Louisiana e Alabama non avrebbe potuto veder luce se i governatori non avessero oggi più di una sponda tra i giudici della Corte suprema. L’obiettivo dichiarato dei suoi promotori è il superamento della Roe v. Wade, la storica sentenza che nel 1973 rende legale l’interruzione di gravidanza negli Stati Uniti tramite un’interpretazione estensiva del 14esimo emendamento.
Prendiamo un’altra storica sentenza, la Brown v. Board of Education che nel 1954 segna la fine della segregazione nelle scuole pubbliche americane dichiarandola incostituzionale: a un giornalista che gli chiedeva se la ritenesse corretta, il giudice Neil Gorsuch si è rifiutato di rispondere nel merito, dicendo in modo sibillino che «non sempre il diritto deve far riferimento a sentenze passate».