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«Grazie a questa nuova profonda conoscenza, il genere umano è a un passo dal guadagnare un nuovo immenso potere per la guarigione. La scienza genomica avrà un impatto reale su tutte le nostre vite e ancora di più su quelle dei nostri bambini. Rivoluzionerà la diagnosi, la prevenzione e il trattamento di molte, se non tutte, le malattie che interessano gli esseri umani». Presentandosi con tono trionfale sotto i riflettori del mondo, Bill Clinton scelse qualcosa di decisamente più incisivo di un post sui social per annunciare la prima “bozza” di genoma, il cui sequenziamento sarebbe stato completato tre anni dopo.
Era la primavera del 2000 e l’allora presidente degli Stati Uniti, in conferenza stampa con il premier inglese Tony Blair, stabilì che i dati sul Dna umano dovessero essere pubblici. In ballo c’era moltissimo: oltre che una svolta epocale nel futuro della medicina, quell’annuncio segnava anche l’inizio del disgelo nella guerra che aveva visto contrapposti da una parte il Progetto genoma finanziato da fondi pubblici, e dall’altra il programma “rivale” condotto dall’azienda privata statunitense Celera Genomics.
“Aprire” quei dati era soprattutto una questione etica, che già allora investì Stati Uniti ed Europa. Un po’ come accade adesso con la rivoluzione annunciata a mezzo Twitter (X, pardon) da Elon Musk, che i primi di febbraio ha dato notizia del “primo impianto di un microchip in un cervello umano” realizzato dalla sua società Neuralink.
Il successo della procedura, se confermato, segnerebbe un passo importante verso lo sviluppo di «interfacce cervello-computer», una tecnologia super avanzata pensata innanzitutto per i pazienti affetti da patologie che ne limitano la mobilità. Il primo prodotto di Neuralink si chiama “Telepathy”, e nelle intenzioni dovrebbe consentire il controllo dei propri dispositivi elettronici soltanto “con il pensiero”: una volta installato, il dispositivo, chiamato interfaccia neurale Brain-computer interface, o Bci, grande quanto una moneta, sarà in grado di registrare e trasmettere i segnali cerebrali in modalità wireless a un’applicazione in grado di decodificarli.
Per impiantarlo Neuralink utilizza un robot chirurgico che ha la missione di posizionare i fili ultrasottili e flessibili dell’impianto nella regione del cervello che controlla l’intenzione del movimento. Dunque l’idea è che i dati del cervello relativi alla pianificazione motoria, come la capacità di muovere un arto, vengano tradotti in operazioni che la macchina può svolgere al posto dell’uomo. Il che vuol dire anche riuscire a controllare una protesi robotica, per chi ha perso l’uso di un arto. E in generale di comunicare il proprio pensiero tramite dispositivi esterni. Un esempio? «Immaginate se Stephen Hawking lo avesse avuto a disposizione», dice Musk per rendere l’idea, avrebbe potuto «comunicare più velocemente di un dattilografo».
Citare il celebre astrofisico affetto da una malattia degenerativa del motoneurone è soprattutto una mossa di marketing, per il patron di SpaceX. Che dopo la (controversa) sperimentazione sugli animali, ha avviato il reclutamento di volontari per il primo trial clinico sull’uomo già nel 2019, ottenendo infine, nel maggio 2023, l’autorizzazione della Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense responsabile della salute pubblica.
La novità, in realtà, ancora non c’è: questo filone di ricerca esiste da decenni, sia in ambito pubblico che privato. Ma la tecnologia sviluppata da Musk, grazie al numero di elettrodi utilizzati, porta con sé grandi promesse. Oltre che grandi timori, dal punto di vista della sicurezza e dell’etica. Se il primo obiettivo dichiarato è terapeutico, infatti, lo scopo ultimo di Musk sarebbe di fondere l’intelligenza umana con quella artificiale. Con la prospettiva di potenziare le nostre capacità attraverso le macchine. Di qui il timore del “mostro biotecnologico”, che secondo il professor Lorenzo D’Avack, membro del Comitato nazionale di bioetica, implica il grande pericolo di una disumanizzazione.
Il tema è enorme, e mette in allerta gli esperti soprattutto per la mancanza di regolamentazione: lasciare una tale rivoluzione nelle mani di un privato, che ha accesso a dati e risorse uniche, significa tagliare fuori la ricerca pubblica, con il rischio di tenere in “ostaggio” i risultati scientifici ottenuti. In altre parole, c’è il pericolo che gli obiettivi commerciali prevalgono sugli interessi della collettività, con esiti incerti. Che faremo, quando la possibilità di estendere la nostra memoria o la capacità di imparare una lingua in tempi record sarà sul mercato? Le implicazioni e le eventuali diseguaglianze che un simile prodotto potrebbe generare, sulla base dei costi, sono facilmente intuibili.
Ma il timore più grande, ciò che agita coloro che sono già preda di scenari distopici, riguarda soprattutto la capacità di “lettura” della mente: come “filtreremo” i pensieri? Come controlleremo la macchina, quando saremo noi a dipendere dalla macchina? Ciò che è certo, è che dietro l’annuncio di Musk «non c’è alcuna pubblicazione scientifica», sottolinea Eugenio Santoro, direttore dell’Unità di Ricerca in sanità digitale e terapie digitali dell’Istituto Mario Negri di Milano. Sappiamo poco o nulla. E perciò bisognerebbe agire sul piano normativo per riportare i «progetti chiave, come lo è questo, nelle mani pubbliche», spiega l’esperto, coinvolgendo maggiormente l’area etica nell’ambito della tecnologia.
Con il rischio, però, di paralizzare la ricerca, come sostiene invece Gilberto Corbellini: «La tecnologia evolverà e affronteremo di volta in volta i problemi», dice il professore di bioetica. È inutile, insomma, fasciarsi la testa. “Processare” Musk anzitempo genera soltanto ansie infondate: il magnate dello Spazio non ha nessuna intenzione di controllare la mente umana. Almeno per ora…
(Articolo pubblicato il 19 febbraio 2024 sul numero del Dubbio del lunedì)