PHOTO
Protesta di massa in Turchia dopo l'arresto del SIndaco di Istanbul
Dopo una settimana di mobilitazioni e di feroce repressione da parte del governo di Recep Tayyip Erdogan, l’opposizione misura la sua forza nelle vie di Istanbul dove oggi è previsto un corteo nazionale che si annuncia tra i più partecipati di sempre.
L’arresto di Ekrem Imamoglu, sindaco della città e principale sfidante del “sultano” alle prossime presidenziali ha innescato un effetto domino, spingendo migliaia di turchi (soprattutto i più giovani) a contestare apertamente il sistema Erdogan. Sembra di essere tornati al 2013, ai tempi delle rivolte di Gezi Park, agli scontri tra la polizia e gli studenti che protestavano contro l’abbattimento di seicento alberi e la costruzione di un centro commerciale.


Come raccontano i “reduci” di quel movimento spontaneo, non fu tanto la cementificazione del giardino a portare così tanta gente in piazza, quanto la reazione, sproporzionata e durissima delle forze dell’ordine che caricarono selvaggiamente i dimostranti sparando lacrimogeni e proiettili ad altezza d’uomo, mentre Erdogan e i suoi ministri liquidavano i contestatori come «terroristi».
Dopo tre mesi di presidi e cortei i ragazzi di Gezi Park vennero piegati dal regime con un bilancio di 11 morti e oltre ottomila feriti. Tre anni più in là, nel 2016, la macchina della repressione aumenta vorticosamente i giri, approfittando del presunto fallito tentativo di colpo di Stato per fare a pezzi la società civile: negli ultimi nove anni decine di migliaia tra accademici, intellettuali, giornalisti e avvocati sono finiti in prigione con accuse immaginifiche e condannati in seguito a processi farsa. Nulla sembrava potesse più scalfire il potere del sultano. Eppure la popolarità crescente di Imamoglu, che nel 2024 aveva vinto le elezioni municipali di Istanbul sbaragliando l’Akp (il partito di Erdogan), era vista come un rischio troppo elevato in previsione delle presidenziali del 2028, che saranno anche lontane ma è meglio prevenire il pericolo mettendolo fuori gioco attraverso l’azione dei giudici.
Probabilmente Erdogan e i suoi non si aspettavano una reazione così forte da parte dell’opposizione e, come è sempre accaduto durante i passaggi di crisi, la risposta del regime è stata senza compromessi: repressione a trecentosessanta gradi. Sono quasi 2mila le persone finite in cella nell’ultima settimana (80 di loro sono già state incriminate e rischiano a tre a cinque anni di prigione): tantissimi manifestanti ma anche arresti mirati, specie di giornalisti. Nel mirino dell’Autorità statale per la radio e la televisione ( Rtuk) sono finite diverse emittenti televisive, considerate troppo vicine all’opposizione, le stesse che i primi giorni hanno documentato le manifestazioni a sostegno del primo cittadino di Istanbul. Poi è arrivato il bavaglio a normalizzare ulteriormente un panorama mediatico in cui il 90% di giornali, radio e tv è filo- governativo.


Il sindacato dei giornalisti (TGS) da parte sua ha annunciato l'arresto «all'alba» di due colleghi nella loro abitazione, accusati di aver simpatizzato con le manifestazioni che si sono svolte davanti al municipio di Istanbul su appello del CHP, il partito di Imamoglu. «Lasciate che i giornalisti facciano il loro lavoro – Stop a queste detenzioni illegali» protesta il sindacato, riprendendo lo slogan delle principali associazioni di difesa della stampa: «Il giornalismo non è un reato».
Ce n’è anche per gli inviati stranieri: ieri all’aeroporto di Ankara è stato fermato il reporter svedese Joakim Medin, giunto in Turchia per coprire le manifestazioni di oggi. Evidentemente i suoi ultimi articoli, schierati dalla parte delle proteste, non sono piaciuti al sultano. Ma la censura funziona: chi avesse seguito negli ultimi giorni l’informazione turca penserebbe di vivere in una specie di universo parallelo dove i cortei, i tafferugli e gli arresti di manifestanti non sono mai avvenuti o derubricati a questioni di «teppismo». Una strategia che finora ha pagato anche se Erdogan non può pensare di nascondere al mondo la crisi di rigetto della società verso il suo sistema di potere.