PHOTO
«Il vero blocco dell’attività giudiziaria riguarda l’attività di cancelleria: mentre l’avvocatura si è organizzata per lavorare da remoto, come già faceva per il processo civile, cancellerie e segreterie non sono in condizione di farlo, perché stanno lavorando con dei presidi che non riescono a farsi carico degli atti depositati sia dalla magistratura sia dall’avvocatura». A denunciarlo è Aldo Luchi, presidente dell’ordine degli avvocati di Cagliari, che nei giorni scorsi ha sottoscritto tre diversi protocolli per rendere il processo telematico del suo distretto più facile, evitando compressioni dei diritti. Ma modus operandi frammentati e diversificati, senza alcuna strategia comune, racconta al Dubbio, rischiano di comportare «disparità di trattamento processuale pericolose». Presidente, quali sono i problemi relativi ai sistemi informativi utilizzati dalle cancellerie? Il dato tecnico è che la direzione generale dei sistemi informativi automatizzati non ha attivato delle Vpn, ovvero dei tunnel sicuri per consentire al personale amministrativo di lavorare in smart working sui registri telematici, che richiedono una rete protetta. Il processo civile telematico, ma per per gran parte anche il penale, richiede necessariamente un passaggio di cancelleria o di segreteria tra avvocatura e magistratura: non è pensabile che dialoghino senza qualcuno che registra, protocolla gli atti e dia certezza al deposito, anche e soprattutto in relazione al rispetto dei termini perentori e ordinatori. Come si ripercuote fattivamente sul lavoro e sulla possibilità di celebrare i processi per via telematica? Analizziamo i casi in cui è consentito lo scambio di memorie tra parti nel processo civile, come nel caso della discussione scritta, che codifica il deposito di memorie in luogo della discussione orale. Se il cancelliere non può accedere al Sistema informatico contenzioso civile distrettuale e non può scaricare i depositi degli avvocati e inviarli sulla consolle del magistrato, è evidente che tutta quella previsione rimane lettera morta. Quindi le udienze non si potranno celebrare per un dato tecnico, ovvero l’impossibilità della cancelleria di accedere al Sicid. Né credo che, in questo regime provvisorio di giurisdizione, si possa fare affidamento unicamente sulla presenza nei presidi di cancelleria, che sono contingentate in ragione sia della dimensione degli uffici, che non consentono il necessario distanziamento sociale, né possiamo pretendere che i dirigenti amministrativi degli uffici si accollino la responsabilità di far restare i dipendenti in servizio a lavoro con il conseguente rischio che questi contraggano il virus in ragione di quella prestazione lavorativa. È qualcosa che non si può chiedere. Questo tipo di problema come compromette la tutela delle garanzie? È evidente che la celebrazione da remoto dei processi complichi il diritto alla difesa. Tutto sta nel trovare delle metodiche che consentano il corretto esercizio dello stesso. A Cagliari abbiamo adottato dei protocolli che credo abbiano dato un equilibrio che consente all’avvocato di tutelare questo diritto. Come vi siete organizzati? Si tratta di protocolli locali che sono più dettagliati di quelli standard. Abbiamo previsto tutta una serie di correttivi, come ad esempio per quanto riguarda la convalida degli arresti in monocratico: abbiamo previsto che sia la polizia giudiziaria stessa a trasmettere per email al difensore gli atti relativi all’arresto dell’indagato, così come abbiamo previsto che sia la cancelleria del giudice a trasmettere il verbale sulla mail dell’avvocato. Sono stati accolti anche dalla magistratura? Ne abbiamo fatto una questione di principio e la magistratura è stata d’accordo con me fin dal primo momento. Un esempio su tutti: è previsto che in ogni momento - prima, durante e dopo l’udienza - l’avvocato possa chiedere ed ottenere un canale di dialogo privilegiato ed esclusivo, del tutto staccato da quello dell’udienza, con il proprio assistito se segue l’udienza da un posto diverso. È rimessa all’avvocato la facoltà di scegliere da dove celebrare l’udienza, può farlo in tribunale, da casa o perfino nel luogo in cui si trova l’arrestato. È una garanzia che abbiamo introdotto concordemente con i capi degli uffici giudiziari. Perché non pensare ad un protocollo comune a tutti i distretti? Ecco il vero problema, per come la vedo io: che regole del genere siano rimesse all’iniziativa locale. Se ogni circondario ha un suo protocollo non esiste una base comune. In questo momento il ministero della Giustizia mi sembra silente in modo allarmante, perché non dettare delle regole anche tecnico-giuridiche e lasciare l’iniziativa ai decentramenti locali può essere pericoloso, perché può instaurare delle disparità di trattamento processuale di non poco conto. Nel resto della Sardegna ci sono protocolli simili? Ci sono differenti protocolli. In alcuni fori sono stati adottati più o meno in maniera pedissequa i protocolli standard. A mio parere quei protocolli sono una base di partenza necessaria, ma troppo lacunosi su alcuni punti. Noi ne abbiamo firmati tre: uno per le direttissime monocratiche, uno per le udienze da celebrarsi davanti al tribunale di sorveglianza e un terzo che riguarda le convalide dei fermi degli arresti nonché gli interrogatori di garanzia davanti al gip. Questo perché ogni particolare situazione ha regole tutte sue. L’idea che il processo, dopo l’emergenza, possa diventare sistematicamente telematico è realizzabile? Il processo telematico non può essere introdotto a scapito delle garanzie difensive, questo è impensabile. Quello che io auspico è che questa sperimentazione, che deve necessariamente cessare nel momento in cui cessa l’emergenza date le disparità, possa invece costituire una valida base di partenza per ragionare in termini diversi e innovativi nel processo penale. Fino ad oggi il processo penale telematico non è stato mai attuato per esclusiva responsabilità delle procure, che avevano timore a consentire l’accesso da remoto nei propri registri e nei propri dati, come se la cosa non fosse altrettanto grave nel processo civile. L’avvocatura ha sempre promosso l’innovazione telematica. C’è poi il comportamento ambivalente della Cassazione. Cioè? Fino a ieri ha sempre opposto dei formalismi ingiustificati, a mio modo di vedere, con riferimento al deposito degli atti telematici. Una delle ultime pronunce addirittura nega l’esistenza dell’atto telematico firmato digitalmente via pec da parte del difensore, nonostante sia previsto dal codice dell’amministrazione digitale, che prevede, per gli atti depositati via pec con firma digitale, la stessa efficacia dell’atto cartaceo. Subito dopo l’emergenza, invece, la Cassazione ha emesso una circolare che chiede all’avvocatura di inoltrare l’istanza telematicamente con firma digitale via pec, dimostrando che la posizione precedente era una scelta pregiudiziale. Si parla di rinviare il ritorno in aula all’11 maggio. È una scelta giusta? Il vero rischio è riprendere un’attività processuale in condizioni che non siano di massima sicurezza e soprattutto prima che la macchina amministrativa della giustizia sia veramente pronta per farlo. A Cagliari, ad esempio, ad oggi la gran parte di noi non ha ricevuto la notifica dei rinvii delle udienze sospese dal 10 di marzo. Quindi è impensabile che, con questi tempi, potremo tornare in aula anche a maggio. Anzi, se il ministero della Giustizia non mette mano a una soluzione per evitare che si aggravi il ritardo della macchina amministrativa del sistema giustizia non saremo pronti neanche a settembre. E lo dico con la consapevolezza del fatto che per l’avvocatura un blocco di questo genere sarà un bagno di sangue, perché molti studi andranno a chiudere. Ed è drammatico.