PHOTO
“Misure incentivanti per il ricorso a modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa”: con una circolare così titolata, il ministro per la pubblica amministrazione Fabiana Dadone ha disposto un provvedimento che definiremmo “logico” oltre che di buon senso. Una decisione coerente con il ricorso alla tecnologia in un momento di cui l'allargamento del virus spaventa per la sua velocità, vedi la cancellazione di molti appuntamenti internazionali e storici quali ad esempio il salone internazionale dell’automobile di Ginevra che sarà solo telematico: le novità delle varie case costruttrici saranno svelate con conferenze stampa virtuali in cui saranno evidenziate le caratteristiche dei nuovi modelli. Ma c'è anche chi si è laureato in videoconferenza. La tecnologia correre quindi in aiuto della drammaticità di un momento storico che vede l’Italia fra i paesi più aggrediti dal Coronavirus. In una società tecnologicamente assistita come mai nel passato, precipitare dalla condizione della paura ( salvifica, per Manzoni) a quella dell’angoscia ( mortale, per Kierkegaard) è conseguente alla – cattiva – abitudine di avere la tecnologia a portata di mano in forma spiccia. Un suo uso pret- a- porter che preclude – sull'altare della velocità, dell'immediatezza – le sue tante potenzialità.
Questo Occidente il cui tramonto viene annunciato con stucchevole cadenza a ogni sternuto del mondo, ha proprio nelle forme più estese della tecnologia le risorse per evitare che alla sciabolate che stiamo subendo sul piano sanitario, si uniscano quelle economiche; con la differenza che se la parabola sanitaria potrà contare – ci autorizzano a sperare gli scienziati – su una curva discendente nell’arco dell’anno, col sussidio anche di un vaccino (?), per l’economia, prossimo e salvifico vaccino non c'è; e quel che si prospetta è un orizzonte inquietante per tutta l’Europa, con l’Italia ancora più esposta alle intemperie economiche per la perdita secca di oltre 30 milioni di turisti, cioè quasi 8 miliardi per una nazione che ha nella estesa mercanzia del suo Bel Paese una voce significativa. Per tutte queste ragioni, il rimedio tecnologico può cauterizzare – almeno in parte – le ferite annunciate per la nostra economia. Se si pensa che in Italia lavoriamo il 20% più della Germania producendo l’identico dato in meno, significa che c'è bisogno di riorganizzare il mondo del lavoro, utilizzando proprio quella tecnologia – alias telelavoro – che timidamente, a causa del virus, si sta facendo strada: prima dalle assicurazioni, alla finanza, alle banche, ora anche da parte dello stesso comparto pubblico. Paradossalmente, negli ultimi decenni, il gigante dell’industria meccanica si è mosso più velocemente sul piano tecnologico, utilizzando la robotica, mentre il comparto impiegatizio ha continuato a muoversi con dinamiche ottocentesche, cioè con lo spostamento di masse lavoratrici in un unico posto di lavoro. Spostamenti che intasano le città, inquinano, bruciano ore: un paradosso, se si pensa che quasi l’ 80% del lavoro passa ormai per informazioni telematiche: email, wa, telefono. In buona sostanza, si tratta di un fatto culturale. L’impianto del lavoro figlio della rivoluzione industriale non è più coerente con una tecnologia che potrebbe portare vantaggi su diversi livelli, non ultimo il recupero di spazi significativi del tempo libero.
Le immagini fantozziane di centurie di impiegati poco modelli intenti a snocciolare prima possibile il rosario delle ore stazionate in ufficio potrebbero – da subito – rappresentare quel che rappresenta “Il Treno” dei fratelli Lumiere: archeologia cinematografica. Nei primi anni 90 andai per lavoro un paio di volte in Australia e scoprii un mondo sconosciuto: per le enormi distanze fra fattorie e i centri urbani più vicini, gli studenti “frequentavano” la scuola telematicamente. Lo stesso valeva per consulti medici di lieve entità. A livello mondiale, l’idea del telelavoro è parallela all’allargamento dell’utilizzo della rete. Nel 1973 della grande crisi petrolifera, il governo americano incoraggiò il “telecommuting”, cioè lo spostamento dei dati anziché delle persone. Da uno studio di Eurofound e dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro, l’Italia risulta fanalino di coda ( anche) nel cosiddetto smart working ( simile al telelavoro ma che presuppone flessibilità e adattamento delle risorse umane in funzione degli strumenti di cui si dispone). Se in Europa la media dei lavoratori che utilizzano lo smaert working è del 17%, in Italia cala al 7%. In testa, ci sono i paesi nordici, seguiti da Regno Unito, Lussemburgo, Francia ed Estonia. In Giappone – per intuibili ragioni di spazio – il lavoro telematico viene incoraggiato dal governo, con i lavoratori che hanno la possibilità di gestirselo, usando ad esempio anche il week end da parte di chi preferisce usare altri giorni della settimana per altre attività, comprese le ricreative. Ma – sempre se vuole – può lavorare da casa anche 7 giorni su 7 ( è il 30% degli smartworker).
Negli Stati Uniti, la percentuale dello smart working è del 37% e si è accertato che il 78% delle ore di lavoro in più provengono da lavoro remoto. Al concetto di lavoro nello stesso luogo è legato il rapporto salariale, ma il mondo del lavoro deve rapportarsi sempre più spesso con continue modificazioni, destinate a ulteriori accelerazioni proprio in conseguenza di questo virus degli anni Venti.