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Il 22 ottobre l’Istat ha finalmente diffuso il totale dei decessi registrati in Italia nel periodo gennaio- agosto 2020, mettendolo a confronto con quanto avvenuto in media nello stesso periodo degli anni 2015-2019.
Ciò consente di rispondere ad alcune domande che si sono affacciate nel dibattito pubblico sulla mortalità da coronavirus.
Tutti ci siamo chiesti se e quanto la pandemia – costringendo a concentrare le risorse soprattutto sugli interventi anti-covid – abbia ostacolato la cura e la prevenzione di altre patologie. Le conclusioni alle quali si giunge guardando ai dati diffusi dall’Istat sono crudeli.
La gran parte dei decessi da coronavirus si è registrata tra marzo e aprile, ben 27.938 su un totale a fine agosto di 45.483. Esiste ampia seppure non ancora sistematica evidenza del fatto che in quei mesi il rapido progredire dell’epidemia ha messo in crisi i sistemi ospedalieri e di cura. Il che ha probabilmente condannato un certo numero di persone colpite dal virus, che in condizioni diverse si sarebbero salvate.
Ma ciò ha inoltre accresciuto tragicamente quelli che – con discutibile eufemismo – i militari chiamano “danni collaterali”. Si tratta degli “altri malati” la cui cura ha dovuto essere sacrificata per fronteggiare il covid. Infatti negli stessi due mesi si sono registrati ben 48.010 decessi in più rispetto alla media degli ultimi 5 anni. La differenza di tale cifra rispetto ai decessi Covid sono “altri malati”.
In sintesi, nel momento di crisi peggiore del sistema di ricovero e cura, ad ogni tre decessi da coronavirus se ne sono aggiunti almeno altri due da “danni collaterali”.
Per comprendere la gravità della cosa, bisogna scendere ancora di più nel dettaglio. Circa la metà (13.749) dei decessi da coronavirus registrati in Italia nei mesi di marzo e aprile sono avvenuti nella sola Lombardia. In quella regione la crisi dei sistemi ospedalieri e di cura si è fatta particolarmente acuta. Tanto che ad ogni tre decessi da coronavirus nella regione si sono aggiunti almeno 5 decessi e mezzo da “danni collaterali”.
Se ne conclude che il Covid-19 come sapevamo può uccidere. Uccide molto di più – direttamente e indirettamente – se gli si consente di mettere in crisi i sistemi ospedalieri e di cura.
Tutto ciò non vale solo per il passato, ma tragicamente deve servire da monito per le prossime, difficili, settimane.
E, prima o poi, servirà per giudicare a mente fredda quanto è avvenuto nei tre mesi e mezzo trascorsi tra metà maggio e inizio settembre, fine della prima e inizio della seconda ondata dell’epidemia. Avrebbero dovuto essere celermente rafforzate le strutture ospedaliere e di cura. Sarebbe stato necessario fornire alle persone entrate in contatto con il virus una assistenza domiciliare, anche solo telefonica, che le tenesse lontane fin quando possibile dagli ospedali. Sarebbe stato essenziale salvaguardare la funzionalità delle parti non-Covid del sistema sanitario. Altro che rotelle ai banchi di scuola.
Purtroppo il non fatto, il fatto troppo poco, il fatto male e tardi, rischierà di tradursi in una perdita aggiuntiva di vite umane superiore a quella direttamente prodotta dalla pandemia. Ogni rimedio, se ancora c’è tempo, va predisposto subito.