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Oggi al Senato si parrà la sua nobilitate. O la va o la spacca. O riesce a ricucire i rapporti tra due alleati, o per meglio dire ex alleati, che si guardano in cagnesco e se ne sono dette in questi giorni di cotte e di crude. O, diavolo d’un uomo, s’improvvisa nel suo piccolo un Talleyrand in formato sedicesimo e con la pazienza di un sarto provetto cuce una nuova alleanza tra il diavolo e l’acqua santa. Tra il luciferino Matteo Renzi, che in maggioranza nei gruppi parlamentari tenta di trascinare dalla sua parte Nicola Zingaretti, un uomo indeciso a tutto, e l’angelicato Luigi Di Maio, che rimarrebbe al governo per grazia ricevuta. Il terzo corno del dilemma è presto detto: Conte sarebbe costretto a fare le valigie e togliere il disturbo.
A occhio e croce, questa terza ipotesi oggi come oggi sembra irreale. Intendiamoci, al vaglio del presidente della Repubblica ci saranno diversi scenari. E molto dipenderà dal dibattito che oggi si svolgerà nell’aula di Palazzo Madama dopo le comunicazioni del presidente del Consiglio. Già, cosa dirà? Se il buon giorno si vede dal mattino, dalle frecciate scagliate dal presidente del Consiglio pro tempore a un Matteo Salvini che adesso appare remissivo dopo essersi accorto di averla fatta grossa, c’è da aspettarsi da Conte fuoco e fiamme. Per sbarrare il passo a un ritorno del leader della Lega all’ovile. Per aprire gli occhi a quel bravo ragazzo di un Di Maio, che sotto sotto è ancora innamorato del suo carceriere. Ma sì, del muscoloso Salvini. Vittima com’è stato e com’è tuttora, a dare ascolto ai boatos, della sindrome di Stoccolma.
La storia istituzionale di Conte è degna di essere raccontata. Un presidente incaricato di formare il governo per caso.
Suggerito all’orecchio di Di Maio dall’attuale Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ben lieto di fare da assistente volontario, senza guadagnare il becco di un quattrino, al chiarissimo Professore di diritto civile dell’Ateneo fiorentino. Conte si presenta bel bello al Quirinale ed è scambiato da un inappuntabile Mattarella per un marziano. Per due buoni motivi, sia chiaro. Primo perché le procedure costituzionali non sono acqua fresca. E non si era mai visto che due vicepresidenti del Consiglio in pectore, Di Maio e Salvini, indicassero al Capo dello Stato il nome del presidente del Consiglio. Secondo perché Conte era piovuto direttamente dall’Università senza avere il benché minimo curriculum politico.
Questa circostanza sulle prime lo ha svantaggiato. Dopo un po’ risale le scale del Quirinale sicuro che il supremo magistrato della Repubblica non abbia nulla da obiettare al nome di Paolo Savona al ministero delle Politiche comunitarie. Il professore di Diritto civile ovviamente conosce la Costituzione. E sa bene che se è vero che è il Presidente della Repubblica a nominare il presidente del Consiglio e i ministri, la loro nomina avviene su proposta dell’inquilino di Palazzo Chigi. Una proposta vincolante? Neppure per sogno, come prova ad abundantiam la storia istituzionale della nostra Repubblica. Perciò Mattarella dice di no, quanto meno a quel particolare incarico. E il povero Conte, con le pive nel sacco, discende le scale che aveva salito con tanta baldanza. Nemmeno fosse l’esercito austriaco nel novembre del 1918.
Ma Conte, a dispetto delle apparenze, è anche un uomo nato con la camicia. Perché il nuovo incaricato, Carlo Cottarelli, compare per poi immediatamente scomparire come i fiumicelli carsici. E Conte dalla polvere torna sugli altari. Ma è precisamente a questo punto che comincia a patire le penne dell’inferno. E già, perché lui diventa sì presidente del Consiglio, ma a patto che conti come il due a briscola. Lo scettro del comando spetta ai due vicepresidenti del Consiglio, i soli legittimati a fare il bello e il cattivo tempo.
Il guaio è che il delirio di onnipotenza li ha perduti. A loro interessa la politica interna, dove possono sdottoreggiare senza magari averne tutti i requisiti. E così sono ben felici di assegnare a Conte la rogna della politica comunitaria e la politica estera. Dove loro si sentirebbero a disagio non avendo i ferri del mestiere. Ma Conte sì. Con quella faccia da bravo ragazzo, tutto il contrario dei due furbi ( sic!) di tre cotte. Con quegli abiti che gli cadono a pennello. Con quella pochette civettuola che appena esce dal taschino. Con quei baciamano alle signore che contano. Alla fine qualcosina ottiene. E, come dicono gli americani, nessuna cosa dà successo come il successo.
Ecco che, dopo aver sconfinato per parlare a tu per tu con i grandi della Terra, torna a Roma e comincia a farsi sentire per un colpo di fortuna. Non a caso si dice “Mors tua, vita mea”. Ogni volta che si svolgono elezioni, regionali o europee che siano, Di Maio perde voti in quantità industriali. E Salvini si è complicato la vita con le sue stesse mani. In queste condizioni, volete che non tenti di fare il bis? Cominciamo a pensarlo pure noi. Pur consapevoli che non abbiamo di fronte un novello Cavour.