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La guerra che si combatte in corsia è doppia. Si combatte per i pazienti, sostenendo turni di lavoro massacranti, con presidi di protezione individuale insufficienti. E si combatte anche la propria battaglia personale contro il virus. Dalle strutture ospedaliere del fronte il bollettino di guerra è impietoso: al 26 marzo sono 6.414 gli operatori sanitari contagiati, 200 in più in un solo giorno, medici e infermieri che hanno un’età media di 49 anni, nel 65% dei casi donne. E sono state 46, a ieri, le vittime in camice del coronavirus. Una lista nera che viene aggiornata quotidianamente dalla Federazione nazionale dell’ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri, che continua ad allungarsi.
«È lecito supporre questi eventi sarebbero stati in larga parte evitabili se gli operatori sanitari fossero stati correttamente informati e dotati di sufficienti dispositivi di protezione individuale adeguati: mascherine, guanti, camici monouso, visiere di protezione, che invece continuano a scarseggiare o ad essere centellinati in maniera inaccettabile nel bel mezzo di un’epidemia a cui pure l’Italia si era dichiarata pronta solo a fine due mesi fa», afferma il presidente nazionale della Fnomceo, Filippo Anelli. Anelli critica l’inadeguatezza «del modello ospedalo- centrico per far fronte ad epidemie di questa portata». Servono, dunque, «percorsi dedicati esclusivamente al Coronavirus quanto ad accesso, diagnostica, posti letto e operatori sanitari».
Il caso Teramo. In questo quadro a tinte fosche spicca il caso dell’ospedale Mazzini di Teramo, dove giovedì sono risultati positivi 40 sanitari a lavoro in reparti non Covid. Si tratta di 14 infermieri e due medici di oncologia, 14 tra infermieri e oss e due medici di medicina; tre tra infermieri e OSS più un medico di chirurgia toracica, un medico di diabetologia, uno di anatomia patologica, un infermiere e un medico di cardiologia. Un dato che potrebbe crescere, in quanto l’Asl è in attesa di nuovi referti. «Abbiamo avuto diversi giorni di vantaggio rispetto al nord prima del diffondersi del virus - spiega al Dubbio Gianguido D’Alberto, sindaco di Teramo -, giorni che dovevano servire per preservare gli ospedali e il personale sanitario, baluardo della lotta contro il virus, dal contagio. È vero che anche negli altri territori gli ospedali sono stati attaccati, ma in contesti in cui al di fuori dell’ospedale il virus si era già diffuso.
Il paradosso, a Teramo, è che mentre la situazione, fuori, è tutto sommato sotto controllo, il focolaio, nell’area della provincia, sta dentro l’ospedale». E ciò, secondo il sindaco, a causa della mancata adozione delle misure necessarie, «che chiedevamo tutti da settimane, in primis i medici». Ovvero la dotazione di dispositivi di protezione personale, l’adozione di protocolli sanitari e un’azione di monitoraggio, effettuando tamponi al personale sanitario. «È mancata una guida - ha aggiunto -. Bisogna ricordare che il Mazzini non segue solo pazienti Covid, ma è un ospedale multispecialistico punto di riferimento per l’intera provincia. E va preservato in modo assoluto o rischia di saltare l’intero sistema sanitario della zona». Per D’Alberto il problema è l’aver voluto gestire in maniera ordinaria un’emergenza. «È necessaria una figura commissariale, un esperto che affianchi il direttore generale per aggredire questa emergenza e salvare gli ospedali». L’obiettivo è sanificare l’ospedale - che conta 24 posti Covid, terapia intensiva compresa - blindarlo e ripartire, partendo da tamponi a tappeto tra tutti coloro che vi lavorano, dal personale sanitario agli impiegati.
«Oggi questo meccanismo si è messo lentamente in moto ma già i primi pesantissimi riscontri impongono una immediata accelerazione e, soprattutto, una programmazione sanitaria emergenziale immediata conclude D’Alberto -. Non è ammissibile tergiversare. Nessuna polemica ma un intento costruttivo, nessuna ricerca di responsabilità per eventuali ritardi od omissioni, ma la chiamata ad una maggiore responsabilità da parte di tutti, perché questo è ciò di cui abbiamo bisogno. A nessuno può sfuggire come, al di là dell’emergenza dettata dalla pandemia, vi sia una normalità sanitaria, una serie di malattie e di urgenze che continuano a verificarsi» .