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Israele Palestina, Benjamin Netanyahu in conferenza stampa a Gerusalemme
Tra una parte molto cospicua, certamente maggioritaria, dell'opinione pubblica occidentale e una porzione altrettanto rilevante di quella israeliana, ma anche ebraica in generale, sussistono un fraintendimento e una reciproca incomprensione che hanno già provocato enormi disastri e rischiano di fare di molto peggio nel prossimo futuro. Quando guardano a Israele e alla sua politica nei confronti dei palestinesi quasi tutti, anche tra quelli che riconoscono in pieno il diritto di Israele a esistere, vedono solo un Paese molto forte che schiaccia e opprime un popolo con l'obiettivo di occupare definitivamente la sua terra e per questo nega a quel popolo il diritto di avere un proprio Stato.
Negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi, sulla base di quella cultura ormai diffusa che identifica l'Occidente solo con le sue peraltro gravi colpe, il quadro è diventato molto più orrendo. Israele è vista come un catalogo completo di tutti gli orrori dell'Occidente nella Storia. E' l'America bianca che annienta i nativi americani per prendere le loro terre. E' l'Europa coloniale che vessa e opprime gli altri popoli del mondo per sacchggiarne le ricchezze. E' il Sudafrica dell'apartheid. E perché il catalogo sia completo è anche la Germania di Hitler che organizza lo sterminio proprio degli ebrei. Ma anche chi non arriva a queste aberrazioni e le riconosce come tali è comunque convinto di trovarsi di fronte a un popolo che esercita la propria soverchiante forza per schiacciarne un altro. In parte c'è davvero una componente di Israele, come delle organizzazioni palestinesi, che non ha mai accettato come definitiva la spartizione della Regione nel 1948 e mira all'annessione più o meno conclamata della Giudea e della Samaria, le regioni della West Bank nelle quali dovrebbe nascere lo Stato palestinese.
Ma è una componente che sarebbe rimasta minoritaria se non fossero intervenuti altri lementi, e tornerebbe a esserlo senza quegli elementi. Cioè se gli israeliani non si sentissero continuamente e perennemente minacciati. Quello che per l'opinione pubblica occidentale è solo brutale esercizio di dominio per molti, se non per tutti, israeliani e anche ebrei della diaspora, è invece difesa dalla minaccia di sterminio. Che questa sensazione di minaccia sia fondata o meno è poco importante, dal momento che la sua sola presenza, a torto o a ragione, è determinante. Non si tratta di una minaccia non immediata ma temuta in prospettiva. Israele era circondata ieri da un mondo arabo che non nascondeva l'intenzione di “buttarla a mare” in nome del nazionalismo panarabo. Oggi lo è da una marea ancora più numerosa e temibile di islamici che nutrono lo stesso sogno. Quando l'occidente parla di Stato palestinese immagina una nazione finalmente pacifica. Moltissimi israeliani vedono invece una testa di ponte che rappresenterebbe subito la stessa minaccia che è stata Gaza dal 2005 in poi però moltiplicata all'ennesima potenza.
Quando Hamas dice di non voler riconoscere Israele ma di essere disposta a stipulare una lunghissima tregua, molti in occidente interpretano la posizione come una accettazione di fatto dell'esistenza dello Stato ebraico. Altrettanti, in quello Stato e nel mondo ebraico, ci vedono invece un'esplicita dichiarazione di intenti feroci: “Siamo pronti ad accettare una tregua fino a che non avremo la forza per schiacciare Israele”. O più precisamente per schiacciare gli ebrei perché se l'occidente non dà alcuna importanza al profluvio di articoli e vignette apertamente antisemiti nei media palestinesi, in Israele il particolare non è affatto considerato innocuo. L'opinione pubblica occidentale è convinta che Israele non possa considerare a rischio la propria sopravvivenza per tre motivi: lo scarso interesse di fatto e nonostante gli strepiti dei regimi arabi per la causa palestinese, il sostegno degli usa e dell'Europa, la schiacciante superiorità militare. Ma i regimi non sono le popolazioni, di umori opposti, e non è detto che restino al potere per sempre. Del sostegno degli alleati, gli israeliani si fidano certo ma nella consapevolezza che le cose possono cambiare. Resta la forza militare e solo quella.
A monte di questa incomprensione c'è probabilmente una mancata comprensione di cosa la Shoah e il suo ricordo significhino, a distanza di meno di un secolo, per moltissimi ebrei, israeliani e non: quanto concreta sia sempre considerata la minaccia di genocidio, quanta diffidenza sia ancora nutrita nei confronti di chi, allora, non mosse un dito e non aprì un porto per salvare i destinati allo sterminio. L'incomprensione è reciproca. Che nelle posizioni critiche contro Israele ci sia una robusta e crescente componente antisemita è certa.
Ma considerare ogni critica rivolta a Israele frutto di un antisemitismo latente mai davvero morto in occidente significa chiudersi a ogni possibilità di dialogo e comunicazione. Questa reciproca incomprensione ha creato una situazione che è terribile da più punti di vista. Ha nutrito un nuovo antisemitismo, che è reale e si allarga mascherato da “antisionismo”. Ha spinto Israele a confidare solo nella propria forza, diventata sempre più nel corso del tempo semplice e feroce brutalità. Una spirale che negli ultimi mesi ha toccato il suo punto più basso. Per ora.