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Chi si aspettava spargimenti di sangue non è rimasto deluso. Il day after elettorale del Movimento 5 Stelle apre ufficialmente le ostilità tra le mille anime di un partito smarrito, rintronato dall’ennesima sberla assestata dai cittadini alle urne. Quegli stessi cittadini che, senza alcuna distinzione di classe, il grillismo si era proposto di rappresentare come categoria etica di un nuovo paradigma politico. Così, in preda alla crisi di nervi pentastellata, i fratelli di un tempo si trasformano in acerrimi nemici da annientare. E pur di togliere di mezzo Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, l’eterna promessa della rivoluzione, usa l’artiglieria pesante, liquidando le Regionali come «la più grande sconfitta della storia del Movimento». Un fallimento non compensabile dal trionfo referendario al quale hanno contribuito tutte le forze politiche. E se proprio bisogna dare merito a qualche grillino per averci creduto fino in fondo, per Dibba non bisogna cercare alla Farnesina ma rendere onore a «Riccardo» Fraccaro, «il principale artefice di questo risultato». A Di Maio, semmai, si può chiedere conto del disastro elettorale. «Qualche dato: in Campania siamo passati dal 17 al 10 per cento. E due anni fa il Movimento sfiorò il 50 per cento alle elezioni politiche». Eppure, «è campano il ministro degli esteri, è campano il presidente della Camera, è campano il ministro dell'Ambiente, è campano il ministro dello Sport. E abbiamo preso il 10 per cento», insiste come un martello Di Battista, puntando il dito contro il più grande ostacolo politico alla sua scalata al Movimento. Ed è proprio all’ex capo politico, che sui giornali aveva parlato di alleanze organiche col Pd per il futuro, che l’ex deputato replica in diretta Facebook. «Ho letto le interviste di alcuni ministri» in cui si rilancia «il tema delle alleanze», argomenta. «Non è questo il tema. Il tema principale è la crisi identitaria dle M5S. È innegabile». E l’identità di un partito che dopo il taglio dei parlamentari ha esaurito tutte le bandierine da sventolare, tutti gli obiettivi politici da perseguire, si può «ricostruire» solo attraverso gli Stati generali. Sì, il congresso, quello di cui si parla da mesi in casa M5S ma nessuno sa quando né come si svolgerà. Unico passo in avanti in questa direzione: la convocazione di un’assemblea congiunta di deputati e senatori per domani pomeriggio. Ordine del giorno: congresso e riorganizzazione del Movimento. “Stati generali” si trasforma così nella parola d’ordine di tutte le fazioni in campo. Li invoca Dibba, ma anche Di Maio, e persino il presidente della Camera Roberto Fico, che si sente in dovere di intervenire pubblicamente per disarmare quella «guerra tra bande» che potrebbe far implodere il partito nato dal nulla undici anni fa. Il barbudo del M5S prova a stemperare i toni - ricordando che la crisi del partito ha radici lontane e che le colpe non possono ricadere solo su alcuni - e tenta disperatamente di dare nuovi stimoli a una forza sfiancata. Legge sull'acqua pubblica, salario minimo, riforma della Rai. Sono questi gli obiettivi che Fico mette sul piatto per rianimare il grillismo dei prossimi anni. Potrebbero non bastare. Perché anche Di Battista ha una sua agenda da proporre agli stati generali: rafforzamento dello stato sociale, «di alcuni diritti che non devono essere considerati merci, rafforzamento di tutto ciò che è piccolo: piccola e media impresa, piccola agricoltura, piccole opere». Non proprio la stessa agenda di Di Maio, che per ridare brio al partiro pensa a introdurre «degli strumenti interni al Parlamento per far sì che uno non cambi casacca 7-8 volte, è legittimo che vengano introdotti». Sul futuro del M5S non pesa solo la diatriba tra i fan di un leader unico e quelli di una guida collegiale. «Non è neanche il problema della leadership forte come qualcuno ha detto», stuzzica ancora l’ex deputato. «La leadership forte nel Movimento c'è stata e anche il quel periodo il Movimento 5 Stelle ha dimezzato i voti prendendo una sconfitta epocale alle europee», aggiunge Dibba, per chiarire ancora una volta le responsabilità della disfatta. «Potremmo mettere anche De Gaulle alle guida del M5S, non cambierebbe nulla. Serve subito una nuova agenda con gli Stati generali, non possiamo mettere la polvere sotto il tappeto». Poche ore prima era toccato a un altro grillino della prima ora prendere la parola per impallinare Di Maio e tutta l’ala governista e filo dem del partito: Max Bugani. La colpa del tracollo elettorale dalle europee a oggi? Di «chi da allora non ha mai voluto avviare un momento di riflessione interna» e «ha poi deciso di dimettersi non certo dopo aver preso atto del fallimento, ma solo per lasciare una palla avvelenata in mano al suo successore». Una cosa è certa, il veleno è ormai in circolo. E tra i grillini potrebbe fare più di una vittima eccellente.