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«Ho trovato a casa dei foglietti del mio ex marito con i numeri dei cellulari e dell'ufficio dei pm, all'epoca in servizio a Caltanissetta, Nino Di Matteo, Anna Palma, Carmelo Petralia e Gianni Tinebra. A volte si chiudeva in stanza per parlare con loro al telefono». Per la prima volta lo ha rivelato, consegnando i biglietti, la ex moglie del falso pentito Vincenzo Scarantino, Rosalia Basile, deponendo al processo in corso a Caltanissetta a carico di tre funzionari di polizia ( Bo, Ribaudo e Mattei), accusati di aver creato a tavolino pentiti come Scarantino, costringendoli a mentire sulla ricostruzione della strage di via D’Amelio nella quale morirono Borsellino e la sua scorta. La teste ha anche confermato che l’ex marito venne imbeccato dai poliziotti guidati da Arnaldo La Barbera, perché mentisse sull'attentato e desse la versione di comodo che loro avevano imbastito.
La donna ha indicato nei poliziotti Ribaudo e Mattei, imputati al dibattimento in corso, di aver preparato il marito perché rendesse la deposizione che a loro faceva comodo facendogli imparare a memoria una sorta di parte. E in Bo, l'altro funzionario sotto processo, l'autore di una aggressione subita dal marito dopo la sua prima ritrattazione. Ma non solo, ha anche sostenuto che su input dell'ex pm Anna Palma, il marito era stato convinto a rivolgersi al tribunale dei minori per farle togliere i bambini se avesse deciso di lasciarlo.
Alla notizia della rivelazione della ex moglie del falso pentito, interviene il magistrato Nino Di Matteo spiegando che non c’è nessuna novità. «Spontaneamente, io per primo, spiega Di Matteo - all'udienza del processo Borsellino Quater, smentendo Scarantino, che aveva detto che non mi aveva mai telefonato, ho raccontato che qualcuno gli aveva dato a mia insaputa il mio numero di cellulare perché una volta mi aveva telefonato e un'altra mi aveva lasciato otto messaggi in segreteria telefonica».
In effetti, rispolverando la sua deposizione del 2015 durante il processo Borsellino Quater, il magistrato disse: «Ricordo che era maggio giugno, io avevo finito un'udienza del processo Saetta e spensi il telefonino. Quando lo riaccesi c'erano otto messaggi vocali di Scarantino che si lamentava che diceva di voler tornare in carcere “nell'inferno di Pianosa” piuttosto che vedere tradite “le promesse di assistenza” alla sua famiglia. Mancate promesse che imputava al dottor Gabrielli, dirigente del servizio centrale di sicurezza, e poi Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi. Scarantino si lamentava sempre di queste persone, ma a me non ha mai detto di essersi inventato le cose o che gliele avevano fatte dire.
Se lo avesse fatto – concluse Di Matteo avrei fatto delle relazioni di servizio. Di queste cose, in riferimento alla sua assistenza si lamentava spesso ma erano cose non rilevanti processualmente. Solo poi ho saputo che a dare il mio numero era stato il Procuratore capo Tinebra».