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Tutti assolti con formula piena perché «il fatto non sussiste». Si conclude così, dopo quasi tre anni, il processo Eni Nigeria per i 15 imputati accusati di corruzione internazionale relativamente ai diritti di esplorazione del giacimento Opl245. A deciderlo è stata la settima sezione penale del Tribunale di Milano, presieduta dal giudice Marco Tremolada, dopo oltre 6 ore di camera di consiglio. Il dispositivo della sentenza è stato letto nell’aula appositamente creata alla Fiera di Milano. Assolti dunque l’attuale Ad di Eni, Claudio Descalzi, e l’ex numero uno, Paolo Scaroni e di conseguenza anche le due società imputate nel processo: Eni e Shell. L’indagine condotta dalla Procura di Milano (dall’Aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro) puntava a dimostrare il pagamento di una maxi-tangente da 1 miliardo e 92 milioni ai politici per l’ottenimento del blocco petrolifero: secondo l'accusa la più grande tangente mai pagata da una compagnia italiana. L’accusa aveva chiesto 8 anni di carcere per Scaroni e Descalzi e 10 anni per Etete. Per Eni e Shell, imputate in base alla norma sulla responsabilità degli enti, la procura di Milano aveva chiesto una sanzione pecuniaria di 900mila euro per ciascuna e la confisca in solido con tutti gli imputati di 1,092 miliardi di dollari, pari al valore della tangente ipotizzata dagli inquirenti milanesi. I legali delle società si sono sempre difesi sostenendo che il contratto era stato firmato con il governo nigeriano e che i soldi erano stati versati su un conto bancario di Londra intestato all’esecutivo della Nigeria. «Dopo tre anni di processo, tante udienze, dopo aver analizzato migliaia di documenti finalmente oggi a Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni il suo ruolo di grande azienda della quale l’Italia deve essere orgogliosa», commenta l’avvocato Paola Severino, che, nel processo Eni-Nigeria a Milano, ha sostenuto la difesa dell’a.d. di Eni. «Rappresento Eni e centinaia di società in giro per il mondo, quindi è un onore poter dire che Eni è estranea ad ogni illecito penale e amministrativo. Questa sentenza è un risultato di grande civiltà giuridica», dice invece il legale di Eni, Nerio Diodà. «Ci sono voluti tre anni di impegno - prosegue l’avvocato - e confronti molto duri, ma questo è per tutti i cittadini di questo Paese un risultato che garantisce una giustizia equilibrata. Abbiamo fiducia nei giudici». «C’è un giudice a Berlino», chiosa Luigi Bisignani, accusato di aver fatto da intermediario nell’affare. Per lui la procura aveva chiesto una condanna a 6 anni e 8 mesi. La vicenda risale al 1998, quando l'allora capo politico Sani Abacha, a guida del governo militare nigeriano dal 1993, concesse alle società locale alla società nigeriana Malabu Oil & Gas - riconducibile all’allora ministro del Petrolio Etete - la licenza di estrarre petrolio nel nell’Opl 245, un tratto di mare situato nel Golfo della Guinea a circa 150 chilometri dalla terraferma. Dopo la morte di Abacha e la transizione verso un governo democratico, si avviò una gara - questa volta regolare - per riassegnare la licenza. Che nel 2002 passo così alla multinazionale Shell che vinse l'appalto e versò al governo nigeriano 210 milioni di dollari come bonus per iniziare l'esplorazione dei fondali. Dopo alcuni ricorsi di Etete contro la revoca della concessione, nel 2006 la licenza fu nuovamente assegnata alla Malabu. Shell a quel punto protestò contro la decisione e fece ricorso a un arbitrato internazionale per riavere la concessione. Nel 2010 Eni si inserì nella vicenda. Il gruppo del cane a sei zampe firmò un primo accordo con la Nigeria tramite l’intermediario e avvocato d’affari Emeka Obi per ottenere il 40% della licenza, con la Malabu al 60%. Ma il nuovo governo nigeriano, sempre nel 2010, cambiò idea e concesse la licenza completa alla Malabu. Eni e Shell avviarono quindi una trattativa congiunta, agevolata dall’allora ministro della Giustizia nigeriano. L’anno successivo si raggiunse un accordo: le due società versarono 1,3 miliardi di dollari alla Nigeria per ottenere la licenza su Opl245, una cifra considerata troppo bassa per il valore della zona. Della somma Eni pagò 1,1 miliardi. Emeka Obi, però, fece causa alla Malabu in un tribunale di Londra, chiedendo un risarcimento di 215 milioni di dollari, per via della mancata finalizzazione dell’accordo con Eni. Il tribunale inglese congelò un conto fiduciario del governo nigeriano alla Jp Morgan di Londra, in cui il gruppo italiano aveva versato 1,1 miliardi di dollari, e riconobbe a Obi il diritto di ricevere il pagamento di 112 milioni come commissione da mediatore. Nel frattempo dal conto di Jp Morgan 801 milioni di dollari furono trasferiti, dopo alcuni tentativi tramite banche libanesi e svizzere, sui conti della Malabu e da lì smistati ad altri destinatari. Global Witness e Re:Common, associazioni attive nella difesa dei diritti umani e nella lotta alla corruzione, presentarono alcuni esporti ai magistrati di Milano, del Regno Unito e degli Stati Uniti. Nel 2014 la procura di Milano, con il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, avviò quindi un’indagine e scoprì che circa 400 milioni di dollari erano finiti a Aliyu Abubakar, imprenditore vicino al presidente nigeriano Goodluck Jonathan, e il resto del denaro a Etete. Arriviamo quindi ai giorni del processo. Nel dicembre del 2017 il tribunale di Milano rinviò a giudizio con l’accusa di corruzione internazionale alcuni manager di Eni e Shell, tra cui Scaroni e Descalzi, oltre a vari intermediari e l’ex ministro Etete. Il denaro ricevuto da Abubakar, secondo la procura, sarebbe stato usato per pagare politici e funzionari nigeriani per il loro via libera all’offerta di Eni e Shell. Intanto, nel settembre del 2018 il gup di Milano Giuseppina Barbara al termine del rito abbreviato ha condannato a 4 anni di carcere Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, imputati in uno dei filoni dell’indagine e ha stabilito la confisca per oltre 100 milioni di dollari riconducibili ai due presunti intermediari. .