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Maledetto tacco dodici.
Inventato nell’Ottocento per il puro piacere maschile, perchè il tacco slancia la gamba e rende il passo più sensuale. Bruciato dalle femministe negli anni Settanta come accessorio che trasforma la donna in feticcio sessuale. Riscoperto dalle loro figlie degli anni Ottanta proprio come nuovo simbolo del femminismo, perchè ora la donna lo indossa per sentirsi più potente e non per piacere al maschio. Oggi, in un’epoca di politically correct, torna di moda discutere il suo valore discriminatorio, soprattutto nelle aule di giustizia.
Ad accendere la polemica è stata l’intervista della settantaquattrenne Baroness Hale, prima giudice donna e prima presidente della Corte Suprema britannica appena andata in pensione, che nell’analizzare i passi avanti in tema di parità di genere ha esclamato: «Si sentono ancora storie di avvocate obbligate a indossare tacchi alti dai loro datori di lavoro. Perchè dovrebbero farlo? Decoro, ordine e pulizia sono una cosa, tutt’altro è indicare come requisito di lavoro una particolare estetica». Apriti cielo: in tempi recenti di #Metoo, accusare qualcuno di sessualizzare il corpo femminile sul luogo di lavoro ( soprattutto quando questo succede) è lo stigma peggiore, tanto che tutte le maggiori law firms inglesi si sono affrettate a negare l’obbligo di tacco, ma hanno precisato di richiedere a tutti i dipendenti di «vestirsi in linea con il settore in cui lavorano». Eufemismo bon ton, e chi ha orecchie per intendere lo faccia. La domanda sottesa all’affermazione, infatti, rimane la stessa: i tacchi rappresentano un requisito di vestiario che rende la donna esteticamente appropriata al suo luogo di lavoro, se questo è uno studio legale? A questo obbligo non esplicitato ma pur sempre presente, con tutta probabilità, si riferiva lady Hale.
La questione è più sottile del semplice giusto estetico e riguarda le diverse aspettative del datore di lavoro nei confronti di una donna lavoratrice, rispetto ad un suo omologo uomo. Nel 2017 il Parlamento britannico è stato chiamato a rinnovare l’Equality Act del 2010, dopo aver ricevuto centinaia di denunce di “dresscode discrimination”: alcune donne raccontavano di datori di lavoro che imponevano di indossare vestiti provocanti, di tingersi i capelli di biondo o di rinfrescarsi il trucco più volte al giorno. E non sono mancati gli scandali: nel 2016 una dipendente ha avviato una petizione, raccogliendo più di 150mila firme contro alcune norme sul dresscode, dopo che il suo datore di lavoro della PricewaterhouseCoopers ( PwC), una delle maggiori società di consulenza legale del mondo con sede a Londra, la aveva mandata a casa durante il suo primo giorno di lavoro, perchè si era rifiutata di indossare i tacchi alti. Nel 2008, il mega studio legale Freshfields Bruckhaus Deringer, con più di 2400 dipendenti, finì al centro della polemica perchè pubblicò una serie di linee guida per l’immagine dei suoi avvocati. Per le avvocate donne, il consiglio era di «indossare gonne e tacchi alti invece dei pantaloni, per abbracciare la propria femminilità», ma di «evitare le collane, perchè indirizzano l’attenzione sul seno».
Insomma, il cerino della giudice Hale ha incendiato in un attimo la coda di paglia nascosta sotto il tappeto. Anche perchè, a leggerla tutta, la sua intervista non parlava davvero di tacchi alti. Secondo lei, le avvocate sono liberissime di indossare i tacchi alti, per quanto scomodi siano, purchè sia una libera scelta e non un’imposizione del datore di lavoro, con tutta probabilità uomo. Lo stesso che paga «le avvocate donne meno rispetto ai colleghi uomini per lo stesso lavoro». Ecco il punto: «L’equità salariale è un problema difficile, perchè viviamo in una fase di declino della contrattazione collettiva in favore di quella individuale - ha spiegato Hale-. Inoltre è invalsa la logica dell’accettazione di differenze storiche come giustificazione sufficiente per le attuali diseguaglianze». Un tacco dodici nell’occhio dei benpensanti che considerano le pari opportunità un obiettivo raggiunto. Ma per farsi sentire e attirare l’attenzione di tutti i giornali britannici, bisognava dare alla stampa ciò che voleva: una donna che rispolvera l’annosa polemica sui tacchi, anche se in realtà sta parlando di soldi.