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Si fa presto a dire che la sinistra ha vinto in Spagna. Il Psoe di Pedro Sánchez ha ottenuto 123 seggi e per costituire un governo ne occorrono 176. È pur vero che gli oppositori, dai devastati Popolari di José Maria Aznar, improvvidamente tornato sulla scena, ai populisti ( ma quali “franchisti”? Il franchismo è morto nel 1975 e già all’epoca era un morto che camminava a malapena) di Vox, alle altre formazioni compresa quella degli indipendentisti catalani, possono contare su 147 deputati, ma tra questi i 42 rappresentanti di Podemos potrebbero garantire ai socialisti la forza necessaria per varare un esecutivo.
A Sánchez, tuttavia, non piace Pablo Iglesias e teme che lo scavalchi a sinistra. Così l’ex- leader degli Indignados si appresta a farsi corteggiare in privato, ben sapendo che in pubblico non potrà apparire come il salvatore della Spagna alla ricerca della stabilità perduta da tempo immemorabile. Può darsi che si acconcerà a dare un sostegno occasionale al leader del Psoe cui non dispiacerebbe ottenere anche i voti dei separatisti rischiando qualcosa in termini di credibilità politica soprattutto nella cruciale Generalitat di Barcellona. Insomma, nella testa di Sánchez comincia a prendere forma un governo di minoranza dalla vita inevitabilmente grama che durerà il tempo delle altre compagini che lo hanno preceduto negli ultimi anni. Ed il suo percorso sarà periglioso, indipendentemente dai voti in Parlamento, anche perché i seggi ottenuti dai socialisti sono sovradimensionati rispetto al 29% dei suffragi raccolti: devono il buon risultato, infatti, alla legge elettorale che, come accade in tanti altri Paesi, non fotografa fedelmente gli orientamenti degli elettori.
Dunque, Sánchez è debole, sia pure meno dei suoi avversari, e per guidare la Spagna nei marosi di una crisi economica e sociale che gli ottimisti danno per risolta, mentre i dati dicono tutt’altro, ci vuole una forza ben più consistente. Insomma, non può bastargli l’ endorsement scontato filoeuropeo - che esplicita il suo appiattimento sulle politiche dell’Unione - mentre più della metà degli spagnoli è scettica, sfiduciata, ostile rispetto alle burocrazie di Bruxelles e di Francoforte che pure hanno “salvato” il Paese con l’appoggio determinante di Angela Merkel. Di contro, da buon leader post- ideologico, Sánchez sa che non si governa richiamando in vita antichi stereotipi che hanno fatto la fortuna di Felipe Gonzalez , presidente dal 1982 al 1996, ma il pragmatismo che caratterizza la sua politica è pure frutto del vuoto programmatico, non diversamente da altri partiti di sinistra in Europa, confermando la diagnosi ormai datata secondo la quale l’inversione dei ruoli tra sinistra e destra, ha provocato un cortocircuito politico le cui conseguenze le vediamo nel populismo piuttosto arraffone che connota i movimenti antisistema.
Non diversamente dal morbo che ha corroso la sinistra socialista e post- comunista francese, i socialdemocratici tedeschi, i democratici di sinistra in Italia e numerosi loro omologhi in Europa, anche in Spagna la vittoria di Sánchez risulta piuttosto fragile perché il suo partito non ha saputo aggregare una maggioranza pre- elettorale intorno ad una visione della Spagna proiettata oltre i fallimenti della globalizzazione e la dilatazione della povertà, cavalli di battaglia per esempio di Ciudadanos ( in maniera soft) e di Vox.
La parabola del movimento di Santiago Abascal non sembra destinata a durare a lungo, per quanto abbia portato 24 deputati in Parlamento, per il semplice motivo che giocare una partita politica esclusivamente sull’immigrazione e sullo sfaldamento identitario della “Spagna eterna” senza proporre una alternativa per quanto radicale, ma possibile e coinvolgente, capace di attrarre anche altre forze sulla sostenibilità di una politica nazionale rivolta alle ragioni del Mediterraneo, ma non ostile a quelle dell’Europa, proiettata verso l’Africa dove la partita decisiva si sta giocando in questi anni nella prospettiva di un nuovo ordine mondiale ( la Cina ha capito tutto per tempo...), significa inibirsi l’avvenire per cogliere il disagio presente.
Quel che manca è un credibile partito conservatore nel quale le istanze culturali dell’identità spagnola si accompagnino alla modernità delle soluzioni indispensabili: il vecchio Partito popolare ci aveva provato nella prima fase, ispirato - non desti scandalo - proprio da uno degli ultimi ministri franchisti, Manuel Fraga Iribarne che seppe farsi da parte pur svolgendo un intelligente ruolo di regista politico riconosciutigli anche dalla sinistra. La modestia della classe politica del Popolari, a cominciare da Pablo Casado, creatura inventata dal nulla da Aznar, ed il vento della corruzione ha travolto un’ispirazione che poteva essere di stimolo anche al socialismo iberico in via di trasformazione dopo aver cancellato il partito comunista e gli antagonisti di professione.
Ma c’è di più. La crisi spagnola, non diversamente da quelle di altre nazioni europee, è figlia anche della “disintermediazione” praticata dalle classi dirigenti, spesso chiuse ed autoreferenziali, che hanno abbandonato il ceto medio costituito dai corpi intermedi con un atteggiamento elitistico che le priva della necessaria compenetrazione con le esigenze cetuali abbastanza simili ovunque in Europa. È la ragione per la quale Macron non riesce a trovare il bandolo della matassa nel governare un Paese che pure due anni fa si dimostrò ben disposto nei suoi confronti; è il motivo che rende difficile, se non impossibile - a prescindere da altri motivi - la costruzione di un bipolarismo realmente democratico e rappresentativo in Italia. Dove andrà la Spagna lo sapremo dopo le elezioni europee. Ma le prospettive di stabilità non sembrano molte. Sánchez che deve inventarsi in fretta una politica e delle alleanze se non vuol far la fine di Zapatero che pensò di costruire le sue fortune agitando i fantasmi della guerra civile della quale la Spagna non vuol neppure sentir parlare.