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il giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli, autore di "Dalla Chiesa", biografia del generale ucciso dalla mafia
Carlo Alberto dalla Chiesa ha considerato la mafia non imbattibile. Spesso la figura dell’ex prefetto di Palermo, assassinato nel capoluogo siciliano il 3 settembre 1982, viene solo mitizzata, perdendo di vista il suo metodo di lavoro e l’eredità lasciata a chi lo ha succeduto nella lotta al crimine organizzato. Nel libro Dalla Chiesa (Mondadori) il giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli tratteggia un profilo molto interessante del carabiniere più famoso d’Italia, dal quale emerge l’uomo (padre affettuoso e premuroso) ed il generale impegnato in prima linea contro la mafia. Il libro di Galli, non nuovo a lavori editoriali dedicati ai servitori dello Stato – si pensi al suo Cacciatori di mafiosi di qualche anno fa –, ha come base i rapporti, le informative e i racconti di chi ha condiviso al fianco di dalla Chiesa l’impegno contro la criminalità. Andrea Galli racconta l’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi. Oltre mezzo secolo di storia nazionale in cui si sono avvicendate tragedie molte volte con mandanti ancora occulti, in cui la mafia ha dettato il corso degli eventi.
Quanto è attuale la figura del generale dalla Chiesa?
Più che mai attuale, anche se sono trascorsi trentacinque anni dal suo assassinio. Carlo Alberto dalla Chiesa rimane e rimarrà credo per sempre il carabiniere più famoso e amato d’Italia. Perché è stato un innovatore, per la stessa Arma, e ha introdotto un metodo investigativo che ancora oggi viene spiegato nelle scuole militari e preso a modello. Si formò durante la Resistenza, giovane partigiano nelle Marche e quell’esperienza fu determinante nella sua “prima” Sicilia, quando nel 1949 andò volontario a Corleone per combattere la mafia. Era la mafia che molti suoi colleghi consideravano imbattibile. Invece dalla Chiesa, appunto mutuando l’esperienza da partigiano, riuscì a dimostrare quanto la conoscenza appieno del territorio, l’individuazione di tutta la rete criminale – non solo il padrino ma anche la sua cerchia, dai familiari ai conoscenti –, e la capacità di utilizzare informatori permettessero di trovare punti deboli e infilare lì l’avversario.
A Palermo dalla Chiesa è stato volutamente lasciato al suo destino?
Dalla Chiesa scontava una qualità che in Italia è un difetto: era bravo, molto bravo. Un comandante vero. Con i fatti, non soltanto con le parole. E anticipava i tempi: quando ancora il Paese intero, la sua classe dirigente, i giornalisti e gli intellettuali consideravano le brigate rosse un fenomeno criminale al pari di tutti gli altri, il generale insistette nel far capire che erano un fenomeno politico, e come tale andavano affrontate. Se il Governo non avesse deciso di chiudere il Nucleo antiterrorismo, fondato e comandato proprio da dalla Chiesa, per saziare i detrattori del generale infastiditi dai suoi troppi successi, e per mantenere tacitamente un diabolico equilibrio – l’estremismo di sinistra e l’estremismo di destra –, da utilizzare dolosamente per manovre occulte con la gestione dei Servizi segreti deviati, ecco, se quel Nucleo avesse potuto proseguire, anche Moretti, l’ultimo grande latitante che ormai mancava alla cattura, sarebbe stato preso. E non ci sarebbe stato il delitto Moro.
Il generale è stato osannato e contemporaneamente ostacolato?
Dalla Chiesa è stato, nel contempo, l’uomo della provvidenza, da chiamare nelle situazioni disperate, e un uomo periodicamente contrastato e abbandonato. A Palermo accettò di andare da prefetto sia per il suo senso del dovere e dello Stato, sia anche perché, all’interno dell’Arma, i vertici stavano facendo di tutto per delegittimarlo, togliergli ogni funzione, ogni potere investigativo. Anzi, c’erano riusciti, visto che dalla Chiesa era stato chiamato al Comando generale e di fatto privato d’ogni mezzo operativo. Fu inviato in Sicilia da solo, senza alcun mezzo, senza uomini, è vero. Ma soprattutto fu lasciato esposto agli attacchi della Democrazia cristiana siciliana, che non avrebbe mai voluto il generale a casa propria e che fece di tutto per creare una campagna di fango e per attaccarlo.
L’isolamento è l’arma che qualcuno usa per colpire da dentro le istituzioni chi rappresenta lo Stato, soprattutto in zone particolarmente difficili?
Sì. Come diceva il generale con riferimento ad altri servitori dello Stato uccisi prima di lui, la constatazione di quanto ormai si sia definitivamente soli precede di pochissimo l’eliminazione fisica.
Oggi la mafia è più forte rispetto a trent’anni fa?
La mafia è più debole. E lo è anche per merito di dalla Chiesa. Dopo il suo delitto, ventimila ragazzi – ventimila, a quei tempi, in quella Palermo – organizzarono una marcia, fino a Ciaculli, feudo mafioso. Senza paura, con coraggio. E da due anni, grazie all’impegno del figlio del generale, Nando, e dei commercianti, il 3 settembre Palermo ospita la festa dell’onestà. Uno straordinario momento di gioia, spensieratezza, confronto, voglia di fare. Non una “semplice” commemorazione. Non un evento di prammatica, bensì un’iniziativa vera, vissuta, partecipata, con molte famiglie e bambini e le gigantografie del generale sulle vetrine dei negozi.
Secondo una parte del “fronte antimafia” la criminalità organizzata avrebbe acquisito negli ultimi anni una natura camaleontica: sempre più a suo agio nella cosiddetta “zona grigia” (professioni, imprese) e una sempre maggiore capacità di influenza nei confronti delle istituzioni. Ammesso che una simile lettura sia fondata, un fenomeno del genere come si contrasta?
Con l’impegno quotidiano di tutti. Dalla Chiesa, da comandante di Legione a Palermo negli anni Sessanta, si applicò per azzerare una pratica diffusissima: gli sviluppi di carriera dei suoi stessi carabinieri attraverso le raccomandazioni. Non gli piacevano le scorciatoie, come non gli piacevano quelli che si lamentano sempre e poi girano la testa. Non bisogna per forza indossare una divisa per affrontare le mafie.