Johnny era come la Torre Eiffel, il Camembert e Napoleone Bonaparte messi insieme. Un obelisco piantato nel cuore della Francia, un monumento all’anima pop di un Paese noto al mondo per le sue rivoluzioni politiche, le sue sottigliezze filosofiche, il suo cinema d’avanguardia e tutto il vieto campionario dell’exception culturelle. Lui era altro. Con quel nome di battaglia da divo anglofono, farlocco come una banconota da sette franchi, Johnny Hallyday è stato l’unico grande cantore della Francia nazionalpopolare, dai primissimi anni 60 fino agli ultimi giorni della sua vita che si è conclusa ieri mattina, stroncata da un tumore al polmone. Avrebbe voluto morire sul palco, da guerriero come è sempre stato, purtroppo gli dei della musica non gli hanno concesso l’ultimo bis. Peccato: uno che si permette irridere il leggendario Mick Jagger perché durante un pranzo in comune «si è addormentato con la testa all’indietro come un pensionato» meritava un’altra uscita di scena.

Nel corso di una carriera durata quasi sessant’anni ha inciso la bellezza di mille canzoni e ha venduto oltre cento milioni di dischi. Cento milioni! La voce robusta dell’urlatore, il carisma rotondo, la vitalità smargiassa e sopra le righe e l’assoluta mancanza di snobismo hanno compensato il talento più che ordinario di un artista amatissimo dal pubblico ma mol- to meno dalla critica, oggetto di devozione incondizionata ai limiti dell’isteria da parte dei suoi fan. Nel ‘ 66, dalla platea del celebre Olympia hanno la sfrontatezza di fischiare gli Experience, il gruppo di Jimi Hendrix che apriva un suo concerto, colpevole di ritardare l’entrata in scena del loro idolo. Johnny si vantava di aver scoperto Hendrix di cui interpreterà un’improbabile versione di Hey Joe, una bugìa detta con il sorriso sulla bocca. Di sicuro con Jimi ha partecipato a una gara di “cerchi di fumo” in un ristorante di Nancy, sempre nel ‘ 66 come testimonia un video-rarità caricato su youtube.

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Trent’anni dopo, nel ‘ 96, riesce a far volare dalla Francia più di 5mila supporter per una sua esibizione a Las Vegas, peraltro a detta di tutti «il peggior concerto della sua vita». che nel corso dei decenni ha conquistato anche i detrattori più sussiegosi e i più arcigni cenacoli di intellettuali. Lo vedevano come un bifolco, non possedeva l’arguzia colta di un Brassens, l’intensità impegnata di un Brel, la genialità sperimentatrice di un Gainsbourg, il classicismo elegante di un Trenet, la freschezza anticonformista di un Antoine. Avevano ragione, Johnny era molto di più. Piaceva decisamente più in provincia che nella capitale, le sue canzoni non contenevano innovazioni musicali né sofisticate citazioni letterarie, non invitavano a cambiare il mondo o disertare la guerra, non era musicista, non era cantautore e non era senz’altro engagé. Però i suoi pezzi semplici, la sua mitologia posticcia di un’America da cartolina, il suo rock n’roll squadrato, la sua pop music commerciale, le sue cover sgraziate, i suoi duetti con gli artisti internazionali hanno scritto la storia della canzone, e non solo.

Jean- Philippe Smet nasce a Parigi il 15 giugno del 1943, non «in mezzo alla strada» come si vantava in un successo del ‘ 69, ma in una clinica del nono arrondissement da una famiglia più o meno benestante ( la madre lavora in una sartoria, il padre è attore e ballerino). I genitori si separano presto e lui trascorre gran parte dell’infanzia in una spola continua tra la casa materna e quelle dei nonni e degli zii. Sua cugina Desta è sposata con un ballerino americano che in scena si fa chiamare Lee Hallyday, Jean- Philippe ammira profondamente quell’uomo libero e brillante che incarna lo stereotipo dell’American dream e che lo chiama affettuosamente «Johnny». Quel nome gli balena di nuovo nella mente in un piovoso pomeriggio di primavera del ‘ 57, dopo la visione in un cinema di Pigalle di Loving You ( polpettone in technicolor interpretato da Elvis Presley che narra le gesta di un camionista rockstar), quando decide che diventerà un cantante di successo. Nasceva così Johnny Hallyday.

La prima apparizione pubblica è in tv, nel 1960, nella trasmissione L’Ecole des vedettes, una specie di X factor ante litteram. Bandana in testa, camicia scura con il colletto alzato, pantaloni di pelle nera, si presenta come un giovane rocker «franco- americano», ma esegue un pezzo in francese Laisse les filles che lascia di stucco tutti, non tanto per l’originalità ma per l’energia sprigionata dal quel 18enne longilineo che canta nello stesso stile degli urlatori made in Usa. Prima di lui in Francia il rock non esisteva, zero assoluto. La diffidenza dei francesi nei confronti della cultura d’oltreoceano in tutte le sue varianti è una radice profonda dell’identità nazionale, ci voleva il vigore del govanissimo Johnny Hallyday per sgretolare quel pregiudizio. Firma un contratto con la casa discografica Vogue e in pochi mesi diventa un fenomeno di massa, i suoi dischi schizzano in cima alle classifiche, i suoi concerti sono esauriti in ogni ordine di posto tanto che spesso degenerano in risse e bagarre, come gli scontri nel febbraio ‘ 61 al Palazzo dello sport di Parigi in una serata mitica, in cui partecipò anche il nostro Little Tony. Con la rapidità di una spugna assorbe le tendenze che vengono dagli Stati Uniti, adattando il suo stile alla moda del momento che si tratti del twist, delle canzoncine “ye ye”, delle ballad “beatlesiane”, del country, del rock più progressive degli anni successivi, su su fino ai tormentoni easy listening del pop contemporaneo.

 

Nel 62 finalmente l’America, gli studi di Nashville dove sotto l’egida del produttore Shelby Singleton Jr registra il suo primo disco in inglese, lo stesso anno in cui incontra la cantante Sylvie Vartan che nel ‘ 64 diventerà sua moglie. Negli States migliora la sua tecnica musicale senza mai diventare un virtuoso, aiutato da professionisti del calibro di Bobbie Clarke, Vince Taylor, Marc Hemmeler mentre incontra giganti del jazz come Ray Charles ed Errol Garner. Il pianista Hemmeler, che aveva una grande simpatia per quel francese sbruffone che adorava l’America profonda gli insegna anche altri “trucchi”, come «bere superalcolici senza ubriacarsi subito e fumare Gitanes senza emettere colpi di tosse». Nel ‘ 63 suona gratuitamente per i parigini a Place del Nation, un concerto da 200mila spettatori mentre continua a sfornare dischi su dischi. I lavori della seconda metà degli anni 60 e la prima dei 70 sono senza dubbio i migliori della sua produzione, influenzati dall’emergente rock britannico e dai maestri della generazione appena precedente, quella dei Chuck Berry, Little Richard, Jerry Lee Lewis. Non riuscirà mai a costruirsi una vera e propria carriera internazionale e le sue esperienze straniere sono stato poco più che pittoresche, ma anche all’estero ha avuto il suo consistente nucleo di ammiratori.

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In patria sono gli anni della rivalità con Antoine, il cantante capellone che nella sua Les Elucubrations aveva garbatamente preso in giro Johnny: «Nel mondo del futuro immagino Hallyday chiuso in una gabbia del circo Medrano», recitava un verso della canzone che conquista l’hit parade. La risposta, grossolana nel pefetto stile “hallydayano” non si fa attendere: in pochi mesi Johnny pubblica il singolo Cheveux longs, idées courtes ("Capelli lunghi, idee corte") che balza anch’esso al primo posto delle classifiche. Una rivalità che ha aiutato entrambi anche se il frikkettone Antoine ha da tempo abbandonato le scene per dedicarsi ai viaggi esotici.

Nel frattempo Johnny continua a vivere come una celebrità, circondato dall’amore morboso di fan e groupies, è sulle copertine dei settimanali, si traveste da pistolero, da hippy, da assassino, recita in una versione dell’Amleto di Shakespeare, partecipa a centinaia di trasmissioni televisive, viene citato nei discorsi dei politici. Le cronache di gossip raccontano dei suoi eccessi poi raccolti nell’autobiografia dell’eloquente titolo Destroy, delle sue scappatelle in Costa Azzurra, dell’amicizia con Gerard Depardieu, compagno di sbronze e di evasioni (anche fiscali): ora gli intellettuali più spocchiosi iniziano a riabilitarlo perché la longevità non è un’opnione soggettiva, Johnny è ormai un «icona nazionale» e a un certo momento, a partire dalla seconda metà degli anni 80, gli si perdona quasi tutto. Gli album che pubblica sono di mediocre fattura, ma restano ancora i più venduti.

E tutta la Francia segue con passione e apprensione le sue vicissitudini personali, la malattia alle articolazioni che lo porta a innestarsi due protesi di plastica nelle anche, la partecipazione alla Parigi- Dakar nel 2002, quindici giorni in cui arriverà stremato e felicissimo al traguardo. Nel 2009 il dramma del coma durato sette giorni, conseguenza di un’operazione all’ernia del disco finita male che ha tenuto i francesi con il fiato sospeso.

Con la forza di un cingolato Johnny supera anche questa prova e nel 2010 riappare sulle scene, pubblica nuovi album anche assieme ad artisti di valore come il talentuoso Mathieu Chedid, ritorna anche a suonare dal vivo con i suoi concerti “mosntre”, recita nel film di Claude Lelouche Salaud, on t’aime e in quello, bellissimo, di Patrice Leconte L’homme du train. Nell’estate del 2016 l’ultima tournée in cui riempie gli stadi e i teatri davanti a fan di tre generazioni diverse: ai concerti di Johnny i figli ci vanno accompagnati dai genitori e a volte anche dai nonni. Ieri l’epilogo di una vita fantastica, vissuta sulla scia di un suo grande successo del passato: Come se dovessi morire domani.