Hillbilly Elegy, il best seller del candidato vicepresidente JD Vance che nel 2016 scatenò negli Usa uno dei più virulenti e accesi dibattiti di questo secolo, intitolato in Italia Elegia Americana è tornato in testa alle classifiche di Amazon. Ma ora chi lo legge o lo rilegge lo fa con uno sguardo molto diverso da 8 anni fa: lo passa al setaccio cercando la prima bozza di un programma politico, non più solo come un memoir condito con riflessioni sociologiche.

È giusto e normale che sia così: Vance non è solo un vicepresidente potenziale come tanti. È la testa che offre al suo capo una visione compatta e articolata e, a 39, anni è anche una sorta di erede designato. Peraltro a spingere la sua candidatura è stato il gruppo di Venture Capitalists, primo fra tutti Peter Thiel, che hanno deciso di investire su Trump e sullo stesso JD.

Lo scrittore e giornalista Adam Gopnik, colonna del New Yorker, ha parlato del libro di Vance, come «intriso di retorica fascista» pur ammettendo che i «buzzurri» bianchi, impoveriti e pieni di rabbia di cui parla il libro, Hillbilly o Redneck a seconda degli Stati, non vanno ignorati. Bontà sua. In realtà di fascista, anche nelle specifiche tonalità che la definizione assume dall’altra parte dell’Atlantico, nel libro di Vance c’è molto poco e l’equivoco è pericoloso perché impedisce di capire e valutare la suggestione che quella visione, oggi tradotta in azione politica, esercita su una parte molto cospicua della popolazione americana, indipendentemente da come finiranno le elezioni di novembre.

Nella lettura sociale di Vance, che come è ormai arcinoto proviene appunto da una famiglia hillbilly del Kentucky emigrata nell’Ohio ieri industriale e oggi solo desolato, c’è un salto non dichiarato ma fondamentale. Si rapporta al proletariato bianco impoverito, lo stesso di cui parlava già metà anni ’90 Journey to Nowhere di Dale Maharidge e che canta in un’infinità di pezzi Bruce Springsteen, come a un gruppo etnico preciso.

Una minoranza, come i neri o i latini, compito facilitato dalla comune provenienza Irlandese-scozzese degli Hillbillies degli Appachi. Non a caso buona parte dei riferimenti tratti dalla sociologia provengono da studi sulle comunità dei neri. Come in quegli studi, JD evidenzia l’impatto delle condizioni ambientali e culturali sulla mancanza di prospettive, la disperazione e la predestinazione al fallimento della sua comunità di appartenenza: famiglie disastrate, isolamento, assenza di contatto con altre realtà sociali.

Non si può dire, come è invece stato detto infinite volte, che Vance accusi i poveri di restare tali per pigrizia e mancanza di iniziativa. È del tutto fuori luogo scambiare la sua critica all’assitenzialismo, che è fondamentalmente reaganiana perché pur sempre di un neocon dichiarato si tratta, per una versione a stelle e strisce dei “furbetti del divano”. Non è la pigrizia a condannare gli hillbillies del suo libro: è la dimensione in cui sono costretti a vivere non solo, secondo lui, da fattori esterni come le politiche dei governi o la globalizzazione che ha determinato il precipitare nella scala sociale della classe operaia da middle class a nuovamente povera ma anche da elementi culturali e piscologici sui quali sarebbe necessario e possibile intervenire.

Hillbilly Elegy è prima di tutto una storia di famiglia, la parabola drammatica di una famiglia, quella dell’autore, eletta però a tipologia generale. La dannazione è il vuoto e il fallimento delle famiglie. La sola àncora di salvezza è la presenza di almeno una figura, nelle famiglie disastrate, in grado di diventare punto di riferimento e puntello, tanto da impedire la caduta dei più giovani nel vortice consueto di droghe, crimine, gravidanze adolescenziali, matrimoni sbagliati e fallimentari.

Per Vance quella figura è stata la nonna, alla quale si aggiunge poi il corpo dei Marine, che lo forgia non solo con la disciplina durissima ma anche prendendosene cura nella vita di ogni giorno, dall’acquisto di un’auto nuova alla scelta della banca con cui contrarre prestiti. La religione, presente nel libro ancora soprattutto come richiamo e bisogno ma poi compiutamente riscoperta e abbracciata, completa il quadro.

Non si tratta dunque dell’ennesima riproposizione del “sogno americano”, il singolo che grazie a determinazione e forza di volontà ce la fa. Al contrario, l’esperienza di JD Vance dice che il singolo, per quanto dotato sia, non ce la può fare senza una rete, senza poter contare su alcune condizioni ambientali, culturali e psicologiche, non solo e forse non tanto sociale. Quelle condizioni, nella visione di un neocon partito dal basso, arrivato alla prestigiosa laurea a Yale, poi autore di best seller e Venture Capitalist lui stesso, si appoggiano su pilastri che sono in ultima analisi ancora una volta, nell’ordine, Famiglia, Patria (o almeno uno dei corpi eminenti della patria americana, i Marines) e Dio.

È una visione dichiaratamente conservatrice, per alcuni aspetti reazionaria, ma che fa presa grazie a quella intuizione iniziale che è all’origine delle fortune dello stesso Trump: considerare la classe operaia bianca, impoverita, poco colta, provinciale, “buzzurra”, come un gruppo socio-etnico a sé, con proprie specificità, propri problemi, proprie condizioni ambientali non diversamente dalle altre minoranze che compongono quel Paese di minoranze che sono gli Usa. A quella comunità la sinistra liberal non ha saputo e spesso neppure voluto rivolgersi per anni, e forse il solo ad averlo in parte fatto è stato proprio “Sleepy Joe”, il presidente Biden.

Parlare di fascismo a proposito del memoir di Vance non ha senso ma è anche vero che il confine tra quell’orizzonte conservatore e il Project 2025 partorito dalla Heritage Foundation, il think-tank che da Reagan in poi ha spesso dettato l’agenda alle amministrazioni repubblicane è labile, tanto che lo stesso JD lo definisce “interessante”. Capita che il Project 2025, oltre che neocon, sia anche compiutamente antidemocratico.