Beh, non c’è da meravigliarsi poi troppo. Se dopo 700 anni la Via della Seta cambia senso e invece che da Ovest a Est si volge all’opposto, è normale che ci siano reazioni e sorprese. Anche se è difficile allontanare il sospetto che buona parte della criticità nei riguardi del memorandum che l’Italia ha firmato con il presidente cinese Xi Jinping sia dettata da interessi di parte: precisamente di quei Paesi che con Pechino i rapporti li hanno già stretti da un pezzo e mal digeriscono un nuovo competitor, pure di notevole spessore.

Tuttavia è vero che l’accordo ha suscitato reazione dure da parte di Washington preoccupata che l’Italia diventi la testa di ponte della penetrazione cinese nel Mediterraneo. Come pure è vero che è dovuto intervenire direttamente il presidente Mattarella per spiegare che tecnologie e sicurezza, compresa il 5G, restano fuori da intese e intromissioni. Comunque sia, la stampa europea ci dà addosso, pesantemente.

Se Le Figaro fa un commento dal titolo “Accecamento” e avverte che Roma «abbagliata dallo specchietto per allodole di un accesso al mercato cinese in realtà ben chiuso a chiave, ha aperto alla grande il proprio», Roger Boyes sul Times incalza: «La Belt and Road Initiative non è una nuova versione del piano Marshall bensì un sistema che consente alla Cina di pelare la cipolla dell’Occidente strato per strato».

Il quotidiano londinese cita perfino le frasi di Tajani, poi rettificate, su Mussolini per ammonire: «Come gli italiani hanno scoperto molto tempo fa, far arrivare i treni in orario non equivale a governare bene». Mettendo da parte l’orario ferroviario, si potrebbe replicare che Londra con la Brexit in fatto di capacità di governo sta fornendo esempi non entusiasmanti. Ma lasciamo stare.

E’ evidente che legandosi in qualche modo alla Cina come nessun altro Stato europeo finora, l’Italia si accinge a cavalcare la tigre mentre rischia di cadere di sella perfino da un somarello. I conti pubblici sono quelli che sono; il debito è stratosferico; la recessione è dietro l’angolo: dovendo assommare pure i pericoli di spionaggio o di subordinazione che può sfociare in sottomissione, c’è da avvertire brividi lungo la schiena.

Tuttavia proprio le parole del Quirinale fanno da bussola per comprendere come i legami storici con gli Usa e la collocazione atlantica dell’Italia non sono in discussione; mentre la golden share su delicatissimi e strategici settori resta in mani nazionali. La minaccia da sventare cova dentro i confini, non fuori. E sta nella possibile strumentalizzazione del canale economico con Pechino a fini di supremazia interna. Se cioè anche un asset così delicato finisce nel tritacarne delle schermaglie politiche sia dentro la maggioranza che tra questa e l’opposizione.

Ciò non toglie che pure dalle parti di Bruxelles il dossier italo- cinese va maneggiato con cura. Intervistato da Huffington, il premio nobel Stiglitz è deciso: «E’ l’Europa che sta costringendo l’Italia ad accettare il denaro cinese. Però l’Italia stia con gli occhio aperti: in Sri Lanka e Malaysia l’aiuto cinese ha provocato fenomeni di forte corruzione». Piove sul bagnato?