Aeroporto di Fiumicino

Il check-in per il volo Roma-Tel Aviv non può essere completato online. Prima di imbarcarti nei loro aerei, gli uomini e le donne della compagnia di bandiera israeliana vogliono guardarti in faccia, ascoltare la tua voce, frugare con cura tra le tue cose.

Il desk di El Al è in fondo al terminal 3 di Fiumicino. È separato da tutti gli altri da una lunga vetrata antiproiettile, circondato da militari e uomini della polizia. Israele è una enclave blindata già a Roma. La fila è ordinata, piena di bambini. Non si direbbe che si tratta di un volo diretto verso una zona di guerra. «È l’abitudine», commenta qualcuno, «sono in guerra da sempre. Quello che per noi è straordinario, per loro è la norma».

I controlli sono minuziosi, sfiancanti. Gli operatori hanno l’ordine di non trascurare nessun dettaglio, di non dare nulla per scontato. Il primo checkpoint è per il biglietto. Superato il quale si arriva al secondo, dove un operatore ti parcheggia in un corner, poi prende il passaporto e lo porta al controllo. È il momento dell’interrogatorio:

«La roba in valigia è tutta sua?», chiede una giovane donna in divisa. «Si».

«Porta qualcosa per qualcun altro?». «No».

«Qualcuno le ha consegnato qualcosa prima di partire?». «No».

«Quando ha saputo del viaggio?». «15 giorni fa».

«È solo?». «No, sono con una delegazione».

«Lei sa che dobbiamo perquisire il bagaglio?». «Certo, faccia pure».

«Bene si metta in fila, la chiamerà il ragazzo».

Il ragazzo in questione ha circa 30 anni, è alto e robusto. I due si scambiano qualche frase in ebraico, poi, con un gesto secco della testa, indica verso di me. Il ragazzo gira tra le mani il passaporto, lo guarda, lo sfoglia, mi fissa. È un rituale studiato, qui nulla è lasciato al caso. Infine mi chiama.

Poggio la borsa su un tavolo di un ufficetto spoglio, la apre e tira fuori ogni singolo oggetto, ogni singola borsetta. Lo fa con delicatezza. Ma è una “cortesia da protocollo”, in realtà è concentratissimo sulle mie cose. Accanto a lui c’è uno strano macchinario dal quale, di tanto in tanto, tira fuori una lingua di carta che passa con accuratezza su ogni singolo oggetto del bagaglio sparpagliato sul tavolo. Finita la perquisizione, accenna un sorriso e mi riconsegna tutto: «Buona fortuna, signor Varì». Lo fisso con aria interrogativa, ricambio il sorriso e mi infilo nel gate che porta a Tel Aviv.

Il mare della Palestina

Il mare nega qualsiasi ipotesi di confine. È la sua natura. Il mare confonde, scompagina e irride le misere ambizioni di chi è a terra. Da Tel Aviv a Gaza saranno circa 50 km di distanza. Visti dall’aereo formano una linea retta, ma quel tratto di mare che pure sembra come tutti gli altri in realtà è un’eccezione, una barriera invalicabile: lì dentro affiorano e gorgheggiano odi antichi, mai sopiti, pronti a riaffiorare come un Leviatano affamato di sangue. È un mare che non dà speranza, quello di Gaza e Tel Aviv. Benvenuti in Israele, benvenuti in guerra. Una guerra che dura da quasi 50 anni.

Tel Aviv

La serata è placida, l’aria è tiepida. Sui prati immacolati del lungomare di Tel Aviv c’e qualche sparuto gruppo di ragazzi. Le zaffate di hashish si mescolano all’odore del ginepro. Una ragazza parla col suo cane, un’altra, armonica e chitarra, canta Bob Dylan. Ma è una calma solo apparente. La città della musica e della trasgressione è sospesa, silenziosa: ogni rumore sembra ovattato. La verità è che dal 7 ottobre Tel Aviv è un posto abitato da vecchi. Migliaia di ragazzi sono al fronte a combattere e “la città che non dorme mai” alle 21 è già spenta.

Tel Aviv è una città moderna. Una Miami cresciuta nel cuore del Medio Oriente. E a vederla così, coi suoi grattacieli e le piscine degli hotel, qualcuno potrebbe pensare che la guerra sia lontana. Ma non è così, la battaglia è a due passi: feroce, lunga, disperata.

E a svegliarti dall’illusione della normalità ci pensano le divise militari che spuntano a ogni angolo della città. Israele ha un esercito di 18mila soldati che nel giro di poche ore possono diventare mezzo milione. È la politica dei riservisti, l’effetto di un paese che si sente costantemente sotto assedio, circondato da stati che negli ultimi 50 anni hanno avuto un unico pensiero: eliminarla dalla faccia della terra. O almeno del Medio Oriente. È un popolo in guerra, Israele.

La strage del 7 ottobre è già memoria

Il 7 ottobre è già storia, racconto collettivo, memoria. È una nuova Shoah. A meno di due mesi distanza dalla strage di Hamas, in Israele c’è già un prima e un dopo. La base di Shura, a Sud di Tel Aviv, è diventata un centro di identificazione, un grande obitorio gestito dall’esercito.

«Quel giorno ero ancora un civile», racconta Ariel Shallcar, che oggi è maggiore dell’Idf. «Quando ho visto le immagini della mattanza filmata da Hamas ho pensato che non fosse possibile. Invece era tutto vero». È in quel momento esatto che Ariel è diventato un soldato di Israele: «Dovevamo riprendere il controllo del territorio, contare e recuperare i corpi della nostra gente, evacuare più di 250mila persone e infine salvare gli ostaggi». Accanto ad Ariel c’è un ragazza in divisa, avrà non più di 20 anni. Anche lei è mobilitata, è in guerra.

«La verità - dice - è che abbiamo sottostimato Hamas, la loro capacità militare e la loro brutalità. Hanno sbagliato a filmare tutto. Ma nonostante quei video, qualcuno ancora non vuol credere». Ariel a questo punto si ferma, dietro lo scetticismo degli europei sembra che riviva lo stesso silenzio, lo stesso scetticismo al quale gli ebrei hanno assistito decenni fa. È un eterno ritorno, un passato che non passa.

Ariel parla di fronte a una fila di container bianchi. Sono celle frigorifero. Dentro ci sono i resti dei morti del 7 ottobre che ancora non hanno un nome. Ariel ordina di aprirne uno, ci consegnano le mascherine ma l’odore acre di quei corpi è troppo forte. Il garrito improvviso di un pappagallo rompe il silenzio, ci sveglia da quell’incanto mostruoso.

Dentro il kibbutz Kfar Aza

La visita al kibbutz di Kfar Aza è il cuore della visita organizzata da Elnet, una Ong israeliana che in questi mesi sta provando a raccontare la sua storia, la storia di un paese ferito. So bene che ascolterò solo quello che vorranno farmi ascoltare, vedrò solo quello che vorranno farmi vedere. Il programma è già stato stabilito in ogni minimo dettaglio.

Ma qui, come a Gaza, anche l’informazione è ingaggiata. L’obiettivo di entrambi è chiaro: spostare la solidarietà internazionale dall’una o dall’altra parte. Eppure, quel che vediamo e ascoltiamo è tutto vero ed è sufficiente a rivivere l’orrore del 7 ottobre.

Prima di arrivare a Kfar Aza ci fermiamo a Sderot, la città fantasma. Tutti gli abitanti sono stati evacuati. Solo qualcuno ogni tanto fa una scappata veloce nella casa deserta per prendere quel poco che rimane: vestiti, pentole, qualche foto incorniciata. In città si entra solo con il giubbotto antiproiettile e il casco. Siderot è importante perché ospitava il centro di controllo di Israele. Hamas lo sapeva ed è qui che ha colpito per primo. E Israele senza gli occhi di Siderot è diventata cieca per sette lunghe ore.

Il nuovo centro di controllo è in un bunker. Soldati ragazzini ci scortano verso una casetta, e a ognuno di noi chiedono di non fare foto: neanche un frammento di quei video deve arrivare in rete. Ci infilano in una saletta. C’è silenzio, tensione. Le luci si spengono, il video dell’orrore ha inizio. Il primo commando di Hamas punta una macchina familiare, la affianca. Spara e se ne va. Qualche istante dopo dalla carcassa dell’auto scende una bimba di due anni. Cammina confusa. La macchina del commando torna indietro, punta anche lei. Il video si ferma, non va oltre, non ce n’è bisogno. Nella sala cala il silenzio.

La seconda tappa è il kibbutz di Kfar Aza. Gaza è vicina, l’artiglieria Israeliana è in azione. I telefoni delle nostre guide squillano. È allarme missile. Ma nessuno si scompone. Ci danno istruzioni: in caso di allarme scendiamo con i caschi e ci distendiamo sulla strada. Ma non servirà, pochi minuti dopo l’allarme è già finito.

Prima di arrivare a Kfar Aza facciamo tappa in quello che chiamano il “parcheggio del rave”. Sono le auto dei ragazzi uccisi il 7 ottobre. È un cimitero di lamiere. Ogni singola auto è segnata, schedata. Ed è un altro testimone silenzioso di quella strage. Lo sarà per molto tempo.

Dopo una breve distanza si arriva finalmente a Kfar Aza. Immerso nel verde e pensato come kibbutz delle origini, Kfar Aza doveva essere il sogno ebraico che si realizza. «Quella mattina c’era qualcosa di strano», racconta Israel Lender, un vecchio con gli occhi diafani e la voce tremante. «L’allarme è suonato e io e mia moglie ci siamo rinchiusi nel rifugio. Sentivamo le voci arabe che ordinavano di aprire. Non sono riusciti a entrare nel bunker, ma la mia casa è diventata il loro scannatoio». «Ora - continua Israel - mi sento colpevole di aver costruito la casa. Perché i miei amici sono morti tutti tra quelle mura».

A due passi dalla casa di Israeli, c’è la casa del massacro di bambini. Ogni cosa è rimasta come nel giorno dell’assalto. Nulla deve essere toccato: le scarpette rosa all’entrata, i pezzi di vetro della brocca sparsi sul pavimento, il sangue nella cameretta. Il soldato mostra sul suo tablet le foto dei corpicini massacrati. Gli uomini di Hamas si sono accaniti, hanno infierito. Difficile perdonare.

Ora le poche case rimaste in piedi nel kibbutz sono il ricovero degli uomini dell’esercito israeliano. I colpi di mortaio e le raffiche dell’Iron dome, il sistema di difesa israeliano, tuonano senza sosta. Se c’è un posto nel quale è morta la pace, quello è Kfar Aza.

A poche centinaia di metri da qui c’è l’altra faccia del dolore, della morte. Oltre gli alberi di Kfar Aza c’è Gaza. Ma Israele è un popolo in guerra e ora ha spazio solo per il proprio dolore.