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Sappiamo cosa è stato Israele, non sappiamo cosa sarà in futuro, ma probabilmente qualcosa di molto diverso dal Paese che abbiamo conosciuto negli ultimi 56 anni, dopo la guerra dei 6 giorni del giugno 1967.
Per una moltitudine di ragioni lo shock della mattanza del 7 ottobre è per Israele incommensurabile, non paragonabile nemmeno all’11 settembre per gli Usa. Ora lo Stato ebraico si trova di fronte a un dilemma, un bivio che lo costringerà, salvo eventi provvidenziali nelle prossime 48 ore al massimo, a sacrificare una delle due pietre angolari sui quali si è fondato almeno dalla trionfale guerra dei 6 giorni in poi: la minaccia permanente di un uso della forza esaltato dall’alone di leggenda che circondava i suoi servizi di sicurezza e le sue forze armate e la scelta di mettere la difesa delle vite di ogni singolo cittadino israeliano al di sopra di ogni considerazione, inclusa la sicurezza nazionale.
Tutti in questi giorni hanno ricordato il caso del soldato Gilad Shalit, tenuto prigioniero per 5 anni a Gaza e poi liberato in cambio della scarcerazione di oltre mille militanti palestinesi detenuti. Ma anche se non nella misura forse unica nella storia di oltre mille a uno, scambi simili, totalmente dispari, sono stati per Israele la norma.
Il mito dell’efficenza israeliana ha subito un durissimo colpo il 7 settembre e in situazioni come quella del Medio Oriente il passo tra l’essere considerato debole e l’esserlo davvero è molto corto. Del resto la decisione non necessaria di operare un simile massacro, con civili finiti come in realtà e tragicamente spesso capita sotto il fuoco ma decimati a freddo, mirava proprio a sottolineare la vulnerabilità di Israele e degli israeliani per motivare e galvanizzare i militanti palestinesi.
A fronte di un simile massacro indiscriminato di civili all’interno dei suoi confini, Israele non può che ricorrere a un uso della forza tanto clamoroso da restaurare almeno in parte la propria immagine. Né è solo una questione di immagine, che pure è fondamentale. L’illusione che Hamas, cioè Gaza, fosse una minaccia esistente ma limitata, in grado di infastidire ma non di impensierire è crollata in poche ore e nel modo più tragico che si possa immaginare. Dunque quella minaccia Israele deve in qualche modo provare a neutralizzarla una volta per tutte.
Dall’altro lato i terroristi di Hamas e della Jihad si sono impadroniti non di un singolo Shalit ma di un numero imprecisato, comunque molto elevato, di ostaggi/umani, alcuni di nazionalità statunitense, e si sa quanto anche gli Usa cerchino di garantire la sicurezza dei loro cittadini, o tedesca. L’azione di forza espone inevitabilmente gli ostaggi al massimo rischio: solo ieri ne sono morti quattro, sotto le bombe lanciate sulla striscia. Israele dovrà dunque scegliere tra il tentare di confermare, anzi di ripristinare, la sua natura di potenza pronta all’uso della forza se minacciata oppure quella di Paese pronto a tutto pur di salvare la vita di ogni singolo israeliano. In ogni caso si tratterà di un cambiamento profondissimo, che attiene all’identità non solo al quadro politico.
Anche lì però la tempesta arriverà. Alla fine degli anni ’60 la destra, in Israele, era insignificante, il Likud un partitino. A deciderne l’ascesa fu almeno in buona parte lo shock della guerra del kippur, quando il governo socialista si fece cogliere di sorpresa dall’attacco dei Paesi arabi. La responsabilità della débacle di sabato scorso ricade soprattutto sul primo ministro Netanyahu e il conto gli verrà presentato. Allo stesso tempo è difficile però immaginare che un trauma simile rafforzi la sinistra e i pacifisti e Bibi cercherà di sfruttare la circostanza per restare miracolosamente in sella. Ma la divisione nel Paese, che nell’ultimo anno lo aveva lacerato in due metà inconciliabili e reciprocamente ostili verrà senza dubbio indicato come uno degli elementi che hanno indebolito a livelli non immaginabili il Paese. L’opposizione addosserà la responsabilità a Bibi e alla sua politica fatta apposta per dividere e scavare solchi. Bibi punterà il dito sull’opposizione, accusandola di aver messo la lotta di parte al di sopra dell’interesse di una nazione sempre in guerra. Dall’esito dello scontro dipenderanno gli equilibri politici futuri di Israele ma quell’esito, a propria volta, dipenderà da quel che succederà sul fronte di Gaza: un’incognita che ne evoca molte altre, sia per Israele che per i palestinesi.