L’ultimo caso documentato risale al 20 giugno. Con un video pubblicato su X, Masih Alinejad, giornalista e attivista iraniana in esilio negli Stati Uniti, ha raccontato l’ennesimo arresto violento di una donna “colpevole” di indossare male il velo a Teheran. Un peccato mortale in Iran anche nel 2024, dove il dibattito sull’ijhab ha tenuto banco nella campagna elettorale per le elezioni dopo la morte del presidente Ebrahim Raisi, precipitato con il suo elicottero il 19 maggio scorso. Una sfida quei capelli biondi intravisti sotto il velo verde militare, quasi un “invito” per la polizia morale, che ha spinto la ragazza in un furgone con la forza. Era capitato ad altre prima di questa donna rimasta senza un nome. Come Armita Garavand, morta a soli 16 anni dopo un pugno in faccia in metro, perché mostrava i suoi capelli corti. O Mahsa Amini, la 22enne massacrata di botte per un “ripasso di moralità” dopo esser stata fermata a un posto di blocco, all’ingresso dell’autostrada Haqqani, dalle “Guidance Patrol”, per aver indossato in maniera “non appropriata” il velo. Una lezione che le è costata la vita.

Il suo funerale, celebrato due giorni dopo, ha dato il via all’ondata di protesta che ha travolto l’Iran: le donne presenti hanno tolto il velo, intonando per la prima volta inno della rivolta, quel “Donna, vita e libertà” diventato simbolo di lotta in tutto il mondo. In strada sono scese donne di ogni età, ma anche uomini, tutti pronti a sfidare l'autorità dell’Ayatollah Ali Khamenei, al grido “Morte al dittatore”. E la risposta delle autorità iraniane è stata feroce: la ribellione è stata soffocata nelle violenze, con l’uccisione di centinaia di manifestanti, circa 500, soprattutto donne. Tra loro Hadis Najafi, 23 anni, uccisa con sei colpi di arma da fuoco al collo, al petto, al viso; Hananeh Kia, 23 anni, colpita da un proiettile; e Ghazale Chelavi, 32 anni. A finire nelle mani del regime anche diversi minorenni. E sono stati migliaia di arresti illegali - oltre 22mila - accompagnati da torture, stupri e intimidazioni. Iniziative sfociate, in alcuni casi, in processi irregolari e condanne a morte per impiccagione.

Difficile immaginare che le cose possano cambiare con le nuove elezioni. Le donne iraniane non nutrono speranza e non lo nascondono. Anche se fra i sei candidati alla presidenza - tutti uomini, ovviamente -, c’è stato chi, come l’ex ministro della Sanità Masoud Pezeshkian, ha manifestato un minimo di apertura verso un possibile ridimensionamento dell’obbligo di indossare il velo. «Non si può attuare un pensiero con la forza - ha dichiarato -. Questo metodo non andrà da nessuna parte e non dobbiamo odiarci a vicenda. Per quanto possibile, fermerò le pattuglie di controllo. Non potremo costringere le donne a indossare l’hijab». Una speranza, forse, ma non abbastanza da far abbassare la guardia.

A guidare il corteo di donne paladine dei diritti c’è Nasrin Sotoudeh, avvocata e attivista per i diritti umani. Reduce dall’ennesimo arresto per aver osato partecipare senza hijab al funerale della giovane Armita, nel 2018 è stata condannata a 148 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, dei quali dovrà scontarne almeno 12 per «propaganda sovversiva» e per «aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza», in quanto avvocato delle donne che si sono rifiutate di portare il velo. Un processo, quello a suo carico, che si è svolto in sua assenza e contro il quale il Consiglio nazionale forense italiano ha alzato la voce, attirando l’attenzione del mondo sulla sistematica violazione dei diritti umani in Iran e sul sacrificio degli avvocati a tutela dei diritti.

Già condannata nel 2011 a sei anni di reclusione per propaganda e attentato alla sicurezza dello Stato, l'attivista era stata rilasciata nel 2013 dopo uno sciopero della fame di 50 giorni, che ha suscitato indignazione in tutto il mondo. «Per me, rimanere in silenzio di fronte all’ingiustizia non è un’opzione. In realtà, trovo più difficile sopportare le ingiustizie sociali che la prigione», ha spiegato Sotoudeh poco tempo fa. A combattere il regime c’è anche Narges Mohammadi, giornalista 51enne, vincitrice del Premio Nobel per la pace 2023 e attivista per i diritti delle donne in carcere. Arrestata 13 volte, condannata cinque volte per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate, Mohammadi è diventata il simbolo del movimento “Donna, vita, libertà”. La lista delle accuse contro Narges Mohammadi è lunghissima. Ma la feroce repressione che il regime le ha riservato non è mai andata a segno: ad ogni tentativo di metterla a tacere, l’attivista ha sempre risposto alzando la voce: «In onore del sangue versato dalle donne del mio Paese che hanno perso la vita sotto il giogo del regime religioso misogino - ha scritto in una lettera -, non farò un passo indietro. La vittoria non è facile, ma è certa».