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L’Indonesia è un paese immenso. Collocato a cavallo fra l’Asia sud- orientale e l’Australia, con le sue migliaia di isole, tra cui Bali, domina la più importante rotta marittima dell’economia mondiale, gli Stretti di Malacca. E’ la nazione musulmana più popolosa del mondo, è ricchissima di risorse naturali e di diversità culturali, è abitata da seguaci del Profeta, cristiani, animisti, induisti. E nonostante i conflitti etnici locali sanguinosi e le recrudescenze di estremismo islamistico, continua ad essere un paese largamente caratterizzato da un Islam tollerante e aperto, figlio di una colonizzazione pacifica fatta di traffici commerciali.
Il 17 aprile scorso, questo paese immenso, immerso fra due Oceani, il Pacifico e l’Indiano, è andato alle urne. Una parte consistente dei suoi 192 milioni di elettori indonesiani si sono recati a votare per eleggere il Presidente della Repubblica, i rappresentanti in Parlamento, e quelli nei consigli locali, circa 20mila persone in tutto. I candidati sono stati 245 mila.
I risultati ufficiali non arriveranno prima della seconda metà di maggio. Ma le società di sondaggi, all’unisono, prevedono la riconferma del presidente in carica, Joko Widodo, e quindi la sconfitta del suo più importante sfidante, Subianto Prabowo, un ex generale, marito di una figlia dell’ex dittatore Suharto. 55 a 45 dovrebbe essere il risultato, secondo gli exit poll.
Sarebbe la ripetizione del voto del 2014: anche allora si affrontarono Widodo e Prabowo, ed anche allora il candidato del Partito Democratico di Lotta battè l’ex generale, populista e nazionalista, fondatore e leader di Geindra, ovvero il Partito della Grande Indonesia.
Dal 1998, secondo anno della crisi finanziaria che travolse mezza Asia partendo dal bath thailandese, con il crollo del regime autoritario del generale Suharto, l’Indonesia è diventata una democrazia pluralistica. Da allora, i Presidenti della Repubblica sono stati decisi dai cittadini, il Parlamento è diventato elettivo, l’autogoverno locale ha preso forma e consistenza. Da quel 1998, ci sono stati sanguinosi conflitti locali, due per tutti, la guerra fra cristiani e musulmani nelle Molucche o il movimento indipendentista armato di Banda Aceh, ma alla fine, il sistema politico democratico dell’immenso paese- arcipelago è riuscito a consolidarsi, pacificando le migliaia di isole che lo compongono. E questo è stato già un enorme successo: pochissimi osservatori e studiosi, infatti, avrebbero scommesso sulla democrazia indonesiana quando il vecchio generale fu costretto alle dimissioni dalla rivolta sociale prodotta da quella crisi economica e finanziaria.
L’Indonesia altro non è che la vecchia colonia delle Indie orientali olandesi. Divenne indipendente il 17 agosto del 1945. Il leader che unificò il paese fu Sukarno, leader del Partito Nazionalista, ma il suo regime fu insediato compiutamente, con la cosiddetta “democrazia guidata”, nel 1956, quando propose l’alleanza fra nazionalisti, religiosi e comunisti. L’Indonesia, aveva il terzo maggiore partito comunista del mondo, dopo quelli cinese e sovietico. I comunisti iniziarono ad acquisire forza e potere nella democrazia guidata di Sukarno: classi possidenti e interessi internazionali, Stati Uniti in testa, non apprezzarono minimamente la crescita del potere comunista in Indonesia. L’immenso paese- arcipelago era la vera posta in gioco del “domino” del sud est asiatico, a lato delle interminabili guerre vietnamite. Chi avrebbe controllato l’Indonesia, avrebbe dominato i due Oceani, il Pacifico e l’Indiano.
La posta in gioco era così alta che nel 1965, approfittando di un tentativo di colpo di stato attribuito ad una fazione militare filocomunista, il “movimento del 20 settembre”, le forze speciali dell’esercito, guidate dal generale Suharto, scatenarono la risposta sostenuta dagli Stati Uniti: nacque il Nuovo Ordine. L’Indonesia fu salvata dal comunismo, ma ad un prezzo spaventoso: nei massacri susseguenti l’affermazione del potere di fatto del generale Suharto, furono uccise centinaia di migliaia di persone, forse addirittura un milione. Si trattò del peggior massacro della storia mondiale moderna, dopo quelli nazisti, quelli staliniani, il grande balzo in avanti cinese e il regime dei Khmer Rossi in Cambogia. Nel marzo del 1968, Suharto divenne Presidente della Repubblica a tutti gli effetti. I comunisti indonesiani non si ripresero mai dal massacro: il terzo partito comunista del mondo fu letteralmente estirpato dalla società indonesiana. Sukarno fu messo agli arresti domiciliari.
Ma la storia trova sempre le sue tortuose vie per riprendere il proprio corso: l’Indonesia non fa eccezione. Dimesso Suharto, dopo un breve interregno, il 7 giugno del 1999, gli indonesiani nelle pri- me elezioni libere dalla dittatura del Nuovo Ordine dettero la maggioranza relativa in Parlamento al partito di Megawati Sukarnoputri, ovvero la figlia dell’ex presidente nazionalista Sukarno, il Partito Democratico di Lotta.
Poche settimane dopo, il Parlamento elesse il primo presidente democratico dell’Indonesia dopo gli anni del regime: A. Wahid, influente leader musulmano moderato. La sua vicepresidente era proprio Megawati Sukarnoputri, che poi gli succederà.
Il ricordo di questi fatti è molto importante per la storia dell’Indonesia, e non solo dell’Indonesia: i massacri degli anni 60 hanno segnato pesantemente il sistema politico. Da allora, non c’è più una sinistra moderata o radicale, democratica o comunista in Indonesia: ci sono invece diverse formazioni moderate laiche, il Partito democratico di lotta e il Partito democratico. Ci sono molti partiti islamici, il Partito del risveglio nazionale, o il Partito del mandato nazionale. E infine c’è la vecchia formazione del regime di Suharto, il Golkar, e la nuova formazione del generale parente stretto del dittatore, Gerindra. Non solo: da allora, le forze islamiche hanno un ruolo politico importante e condizionano il processo politico nazionale e quelli locali: recentemente, nel 2016, il Governatore della regione di Giacarta, cristiano e di etnia cinese, Basuki Purnam, è stato sottoposto a processo sotto l’accusa di blasfemia e imprigionato. Importanti manifestazioni hanno sfilato per le strade della capitale contro il Governatore. Qui arriviamo ad alcune particolarità importantissime dell’Indonesia: la presenza e la forza economica e sociale della comunità cinese, da un lato; l’impatto dell’integralismo islamico, dall’altro lato.
L’Indonesia, come peraltro molti paesi del sud est asiatico, dalla Thailandia alla Malaysia passando per le Filippine e ovviamente per la città stato di Singapore, hanno vaste e ricche borghesie cinesi, figlie degli immigrati dalla Cina del sud. I cinesi immigrati sono diventati professionisti, mercanti, imprenditori, proprietari. Sono spesso molto ricchi e guidano importanti conglomerati economici che influenzano la vita politica locale. Le fiorenti comunità cinesi, però, diventano i capri espiatori di tensioni sociali, in periodi di gravi crisi. Esattamente come accadde in Indonesia, durante quella del 1997- 1998.
Proprio il rapporto con la Cina, tanto per cambiare, è al centro dello scontro politico in queste elezioni. I due più importanti candidati, Widodo e Prabowo, hanno programmi economici e sociali abbastanza simili. Su un punto però i due hanno visioni diverse: i rapporti dell’Indonesia con la Cina e l’accettazione degli investimenti cinesi nel paese.
Widodo ha fatto dello sviluppo delle infrastrutture nazionali, uno dei punti cardine dell’azione di governo e dell’agenda politica. Il deficit infrastrutturale alla fin fine è uno degli imbuti per la crescita economica nazionale, tuttora molto forte, l’Indonesia è una delle grandi economie emergenti che ancora fanno sognare investitori internazionali e grandi imprese multinazionali. Il tasso di crescita del Pil rimane superiore al 5 per cento, per il 2018 ed anche, secondo alcune previsioni, per il 2019. L’Indonesia rappresenta la 16° economia al mondo per Pil ( diventa la settima al mondo se il Pil viene calcolato, a parità di potere di acquisto) Per superare l’imbuto delle infrastrutture mancanti, il presidente uscente ha dato il benvenuto a massicci investimenti cinesi. Prabowo, invece, ha promesso che, in caso di vittoria, avrebbe rivisto tutti i progetti: corruzione, trappola del debito, impatto ambientale sono i principali effetti negativi che spesso vengono imputati ai programmi di investimento che rientrano nella Nuova Via della Seta.
E’ assai probabile che alcuni o molti degli investimenti cinesi abbiano conseguenze negative, ad esempio in termini di impatto ecologico. Ma d’altra parte, anche in Indonesia, non mancano progetti economici carenti dal punto di vista ambientale, ma gestiti da imprese occidentali. Freeport- MaMoRan è una grande compagnia mineraria occidentale, con molteplici interessi in Indonesia, che si è trovata sul banco degli accusati nper alcuni controversi progetti in particolare in Papua Nuova Guinea. Il Fondo pensionistico del governo norvegese ha deciso, come conseguenza di queste ed altre controversie, di levare i propri investimenti finanziari nella grande compagnia mineraria.
L’Indonesia, in effetti, è anche oggi al centro della contesa economica e geopolitica mondiale. Esattamente come negli anni Cinquanta e Sessanta quando le sorti della collocazione internazionale del sud est asiatico e del contenimento anti- comunista in Asia furono decise in Indonesia molto più che nelle guerre del Vietnam. Solo che, oggi, i mezzi sono diversi. Anche oggi, i più importanti e influenti paesi del mondo giocano molte carte nel paese- arcipelago. La Cina schiera i sui massicci progetti di investimento in infrastrutture della Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta per penetrare quei paesi ed assicurarsi una rete immensa di rotte di collegamento dell’Oriente con l’Occidente ( oltre che tanti contratti ed appalti per le proprie grandi imprese). Il Giappone e l’Indonesia sono legati dalla comune adesione al TPP, l’accordo di Partnership transpacifico, l’area commerciale tra il Giappone stesso e altri dieci paesi dell’Asia e dell’emisfero americano. Gli Stati Uniti, infine, cercano di farla rimanere nella loro orbita strategica con i molteplici legami che uniscono tuttora i rispettivi apparati militari.
La contesa sull’Indonesia è resa ancora più importante da un’altro fattore che non deve essere dimenticato: essa è la nazione più importante e più grande dell’Asean, l’Associazione dei paesi del sud est asiatico. L’Asean nacque nel 1967, allo scopo di promuovere la cooperazione economica e politica tra i paesi membri. Questo era l’obbiettivo generale, ma lo scopo strategico era quello di riunire i paesi della regione retti da regimi anticomunisti. Crollato il Muro di Berlino, crollata l’Unione sovietico, riformata la Cina comunista dalle riforme denghiste, l’Asean si è profondamente trasformata: da organizzazione dei paesi anti- comunisti della regione è diventa la Comunità delle nazioni del sud est asiatico, con il modello della Comunità europea in testa. L’Asean è diventato il fulcro dei processi di integrazione economici e strategici dell’intera Asia. I Vertici dell’Asean sono l’occasione di importanti summit multi e bilaterali nel Pacifico. L’’ Asean Plus’, ovvero i paesi dell’Asean più Cina, Giappone e Corea del sud, è un formato politico importante per la cooperazione regionale. E l’accordo di libero scambio Cafta, China- Asean, riunisce un mercato di quasi due miliardi di persone. La Cina da nemico è diventato grande interlocutore strategico dell’Asean.
L’influenza in Indonesia ha quindi come posta in gioco anche la penetrazione nell’intera regione: per capirlo d’altra parte basta guardare la cartina dell’Asia. O, quando si vola in aereo fra Singapore e Giacarta, basta gettare una occhiata lì sotto i finestrini per scorgere le lunghe file di porta- conteneirs e petroliere che si snodano per kilometri e kilometri negli stretti della Malacca. Quelle fila di navi sono il simbolo dello sviluppo capitalistico tumultuoso dell’intera Asia e della centralità strategica dell’Indonesia.