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Ilaria Capua, virologa e ricercatrice di fama mondiale, la prima ad aver caratterizzato il ceppo africano H5N1 dell’influenza aviaria, ha rischiato addirittura l’ergastolo perché nel 2014 il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo l’ha accusata - insieme ad altre 15 persone - di essere una criminale senza scrupoli, il vertice di una associazione a delinquere che contrabbandava virus e procurava epidemie in cambio di soldi, in accordo con alcune multinazionali dei vaccini. Ne veniva fuori l’immagine di una donna che lucrava e metteva in pericolo la salute dei cittadini, ma che stranamente il magistrato Capaldo decise di mantenere a piede libero per oltre sette anni prima di accusarla formalmente. L’indagine della procura di Roma ha prodotto 17.000 pagine di documentazione, tra cui moltissime intercettazioni della scienziata che - coerentemente col vizietto italiano di fare della stampa il megafono delle Procure sono finite sui giornali prima ancora che le venisse notificata la chiusura delle indagini a suo carico. Stiamo parlando della famosa copertina dell’Espresso intitolata “Trafficanti di virus” e della inchiesta a firma del giornalista Lirio Abbate. Dopo due anni, e il trasferimento del processo a Verona, per undici dei dodici capi di accusa, tra cui quelli riguardanti la diffusione di epidemie nell’uomo e negli animali, associazione per delinquere, falso ideologico, concussione e abuso d’ufficio, è stata prosciolta “perché il fatto non sussiste”. Il proscioglimento nel merito, più favorevole all’imputato, ha prevalso rispetto alla dichiarazioni di estinzione del reato, ossia la prescrizione, anche per tutte - tranne una - le accuse prescritte. Gogna giudiziaria e mediatica hanno portato tuttavia la Capua a dimettersi da parlamentare di Scelta civica e a trasferirsi negli Stati Uniti dove attualmente dirige un centro di ricerca d’eccellenza dell’Università della Florida, e dove vive con suo marito Richard John Currie e sua figlia Mia. Oggi si racconta in un libro, edito da Rizzoli, Io, trafficante di virus. Una storia di scienza e di amara giustizia scritto con il giornalista scientifico Daniele Mont D’Arpizio.
Professoressa Capua, lei è rimasta “impiccata” ed è stata lasciata penzolare per più di due anni al cappio di accuse infamanti che, come descrive nel suo libro, l’hanno resa in quel momento “una donna finita, disidratata per quanto ho pianto, disperata. Violentata, sì”. Come ci si riesce a rialzare in queste situazioni?
Conservando la lucidità, mantenendo la barra dritta, sapendo che l’esito della vicenda dipende solo da te.
Lei al termine del libro scrive: “Quello che è successo a me accade troppo spesso in Italia, e potrebbe succedere a chiunque. In occasione di questo momento voglio dar voce a tutte le persone innocenti accusate ingiustamente”.
Vorrei che questa mia storia servisse a tante persone, che sono coinvolte in vicende come la mia, a farsi forza ed andare avanti. Io ho voluto dare voce anche a queste persone. Se con il mio libro riuscissi a evitare che anche un solo scienziato o una persona onesta venissero accusati ingiustamente e svergognati sui giornali avrei vinto la mia battaglia.
Qual è il virus che attanaglia la nostra giustizia e quali potrebbero essere gli anticorpi affinché casi simili non avvengano più?
La giustizia ma anche l’opinione pubblica sono segnate dalla rassegnazione. Una delle cose che mi son sentita dire più volte è “ma in Italia si sa che è così”. E questo non va bene, non è accettabile che le vite delle persone vengano stravolte da meccanismi troppo lenti e soprattutto dalla mancanza di risposte certe. Quando ponevo domande circa i tempi e l’iter processuale, la risposta più frequente era “dipende dal giudice, dal pubblico ministero, da quanto hanno da fare”. Il mio non lo ritengo un caso di malagiustizia ma di amara giustizia: alla fine giustizia è stata fatta ma ci è voluto tempo, c’è stata la messa in discussione della mia vita e lo sradicamento di una famiglia dall’Italia, il trasferimento dall’altra parte del mondo. Mi sento come se fossi stata ostaggio della giustizia.
Passiamo al linciaggio mediatico. Lei racconta di pubblicazione di intercettazioni del tutto decontestualizzate, un tentativo - poi mal riuscito - di “svergognare e denudare le persone”. Dopo il proscioglimento si sarebbe aspettata una copertina opposta dall’Espresso e le scuse del giornalista Lirio Abbate?
No, perché mi è stato subito detto che nessuno avrebbe scritto una riga. Addirittura Abbate in una intervista ha sostenuto che io non l’avessi querelato per diffamazione. Invece l’ho fatto immediatamente perché sapevo di essere innocente, e lo ha capito anche la giustizia: ho querelato lui e l’Espresso e li ho citati anche per danni. Mi è dispiaciuto il fatto che, al di là del male che questa persona ha fatto a me e alla mia famiglia, ho dovuto sentire anche ulteriori menzogne. Lui non ha voluto realmente approfondire e scoprire la verità, mi ha fatto tre domande secche, come scrivo nel libro, ma ho avuto l’impressione che lui non volesse onestamente capire. Si è trovato in mano le carte sulla mia indagine e ha deciso di prendere una certa posizione. Detto ciò, esiste però il fair play, quindi secondo me non è giusto e non è corretto che il giorno stesso del mio proscioglimento lui firmi un altro articolo in cui scrive, tirando fuori altre intercettazioni, che i magistrati di fatto hanno scoperto il business tra aziende e comparto pubblico.
Cosa si sente di dire a qualsiasi giornalista che desidera fare in modo professionale cronaca giudiziaria?
Un giornalista che vuole fare giornalismo di inchiesta deve lavorare in buona fede dando al malcapitato il beneficio del dubbio. Se una persona si dichiara innocente e gode anche di una certa credibilità in ambito scientifico e reputazione internazionale, bisognerebbe avere almeno la mente sufficientemente aperta per valutare le varie versioni.
Lei si chiede ad un certo punto nel libro: “Ma un pm è obbligato a conoscere la scienza? Un giudice, un carabiniere? Un giornalista? ”. Che risposta si è data?
Non è un obbligo che conoscano determinate dinamiche e ramificazioni del mondo scientifico perché io da 25 anni faccio il virologo e garantisco che i virus sono una realtà molto complicata. Però prima di accusare delle persone e sbatterle in prima pagina e trasformarle in mostri criminali occorrerebbe far vedere la documentazione a un paio di persone esperte. Come ricordo nel libro, nelle pagine della mia inchiesta, finite sui giornali, avevano confuso i virus: è come se avessero detto che Paolo Rossi e Michele Rossi sono la stessa persona. Vi erano degli errori proprio grossolani. È forse anche vero che i lettori non hanno gli strumenti per districarsi in certi argomenti e prendono per oro colato quello che viene pubblicato. Non si può incolpare il lettore perché il giornalista serve anche per selezionare e tradurre le informazioni. Io non me la sento di dire al cittadino o al lettore dell’Espressoche deve conoscere la nomenclatura dei virus influenzali.
Appena scoppiato lo scandalo, il deputato Gianluca Vacca del Movimento 5 Stelle chiese le sue dimissioni da vicepresidente della commissione Cultura alla Camera ove fosse stata iscritta nel registro degli indagati. Due mesi fa invece i pentastellati virano verso un moderato garantismo qualora qualcuno di loro riceva avvisi di garanzia. Come commenta?
Io in quel momento non avevo ricevuto alcun avviso di garanzia, ma mi ero trovata sbattuta sulla copertina dell’Espresso accusata di reati gravissimi. Trovo che l’onorevole Vacca come altri esponenti del Movimento 5 Stelle abbiano peccato e continuino a peccare di inesperienza e di mancanza di conoscenza della complessità di alcuni problemi e di come alcune situazioni vengano strumentalizzate dalla stampa e non solo. La loro svolta garantista mi lascia un po’ perplessa perché loro stessi dicono “decideremo caso per caso”: questo mi sembra davvero un abuso di responsabilità. Sulla base di cosa un laureato, per esempio in ingegneria, si mette a discutere o a decidere - Grillo non so nemmeno se sia laureato - se determinate accuse sul traffico di vaccini stanno in piedi o no? Siamo arrivati alla giustizia sommaria?
Suo padre voleva farle studiare legge ma lei rispose: “Papà, ma io voglio fare ricerca nel pubblico, perché la scienza è di tutti”. Oggi però in Italia si investe pubblicamente pochissimo in ricerca. Come mai secondo lei?
Manca la cultura della ricerca, quella che collega la ricerca alla competitività, che produce posti di lavoro e punta al benessere della società. E poi la ricerca è la Cenerentola dell’agenda politica, quando si devono fare dei tagli la ricerca ne soffre sempre. Alla base manca la meritocrazia.
Il sistema scienza in Italia è ancora quindi troppo intriso di nepotismo per mettersi davvero in competizione con la realtà internazionale? E come si può ovviare?
Basta copiare quello che fanno nelle altre parti del mondo, come in Olanda, in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti: basta fare dei bandi che siano realmente competitivi e valorizzare le persone e i loro meriti, senza cercare di proteggere dei feudi e delle aree di potere.
Parlando della sua esperienza parlamentare lei scrive: “A volte in questo Paese sembra che di scienza non importi niente a nessuno”. Filosofi della scienza e bioeticisti invece sostengono che il metodo scientifico dovrebbe essere il prototipo della democrazia. Perché in Italia la politica è indifferente alla scienza se non per vietare, e come dovrebbe migliorare il rapporto tra scienza e politica?
Io speravo di riuscire a migliorare questo rapporto con la mia presenza in Parlamento: mi sono impegnata, ho cercato di dialogare, cercando una maggiore apertura e comprensione da parte dei miei colleghi alla Camera verso il mondo scientifico, ma poi è successo quello che racconto nel libro e che mi ha costretto a lasciare lo scranno di Montecitorio. Purtroppo manca apertura mentale e disponibilità a capire determinati aspetti.
Scrivendo del periodo di campagna elettorale con Monti racconta di quando venne ripresa dagli attivisti per alcune affermazioni pubbliche, espressioni del suo pensiero laico. Quanto pesa ancora la presenza del Vaticano nelle decisioni politiche, ad esempio in materia di inizio e fine vita?
Moltissimo, la nostra radice cattolica è determinante. Penso a come l’establishment religioso abbia preso posizione nel caso di Dj Fabo e della sua richiesta di suicidio assistito, e anche sul voto sul testamento biologico.
Lei ha voluto fare ricerca per decenni in Italia, rifiutando prestigiosi incarichi all’estero, perché ha sempre voluto scom- mettere sul nostro Paese. Oggi però le strutture di ricerca italiane non sono considerate “appealing”, i giovani preferiscono portare le loro borse di studio all’estero. Cosa direbbe a un cervello in fuga per farlo rimanere?
Io avevo predisposto una proposta di legge proprio per i ragazzi che partecipano ai bandi europei per permettere loro di spendere questi soldi in Italia. Inoltre sono contraria allo stereotipo del cervello in fuga, perché ritengo che i cervelli debbano muoversi, ci deve essere una circolazione di cervelli. E così come l’Italia esporta cervelli, sarebbe opportuno che ci fosse un saldo positivo, ossia che il nostro Paese importasse un numero pari o superiore dei cervelli che esporta. In Italia ora si fanno meno figli e spesso si è costretti a scegliere tra lavoro e maternità.
Lei però con la sua storia vuole anche “dare l’esempio, dimostrare che la conciliazione mamma- dottoressa è possibile”. Questo è davvero auspicabile in Italia o lei ha rappresentato una eccezione?
Davvero è possibile per alcune persone che hanno determinate capacità organizzative e che hanno la fortuna di intraprendere dei percorsi giusti come è successo a me. Io negli Stati Uniti ho iniziato un lavoro di mentorship sulla leadership al femminile, sulla conciliazione tra la perpetuazione della specie, affidata alle donne, e la gratificazione professionale.
Cosa pensa di una legge sulla obbligatorietà dei vaccini in Italia?
Mi spiace che si debba arrivare a una legge, però a mali estremi, estremi rimedi; in particolare quando si tratta delle vaccinazioni infantili, perché alcuni genitori, rifiutando di vaccinare, si prendono la responsabilità nei confronti dei loro figli e di quelli degli altri che non dovrebbero prendere. Nel momento in cui la percentuale della copertura vaccinale scende sotto determinati livelli come sta avvenendo in Italia io sono d’accordo che si imponga la vaccinazione ai bambini che frequentano la scuola e vivono in comunità.