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È arrivata l’ora. Tardi ma è arrivata. Parte alla Camera l’esame della legge che limita l’attività politica dei magistrati. Prova a regolarla, più che altro: impossibile candidarsi a cariche elettive nazionali o locali nello stesso territorio in cui negli ultimi 5 anni si sono esercitate funzioni giurisdizionali.
È la norma più severa, le altre pure stringono i bulloni ma non si può parlare di misure draconiane. Ieri la discussione generale. Non è ancora stato fissato il termine per presentare emendamenti in aula. Il voto potrebbe arrivare la settimana prossima. «Ma alcuni paletti fissati al Senato sono scomparsi negli ultimi giorni di confronto in commissione», attacca Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia infuriato per il blitz con cui il Pd la settimana scorsa ha cambiato le carte in tavola. «È sparita la norma che sanciva il meccanismo di astensione e ricusazione per il magistrato che torna alla toga e si trova impegnato in un procedimento in cui è parte un parlamentare».
Una polizza contro nuovi casi come quello di Giannicola Sinisi, l’ex sottosegretario e parlamentare antimafia del centrosinistra che ha ribaltato in appello l’assoluzione di Augusto Minzolini.
«Eppure a Palazzo Madama si era arrivati a un punto di equilibrio con grande fatica. Lo si è smontato la settimana scorsa in un battibaleno: il Pd si è presentato nella congiunta tra le commissioni Giustizia e Affari costituzionali con gli emendamenti preconfezionati, io ero relatore e mi sono dimesso, sarò relatore di minoranza», spiega Sisto.
Paradossale perdere l’occasione di disinnescare nuovi casi come quello di cui è stato vittima il senatore di Forza Italia, condannato da un giudice di fatto suo avversario politico nonostante fossero state assolutorie tutte le pronunce precedenti, dal giudizio penale di primo grado al processo civile e alla Corte dei Conti. Il senatore che aveva predisposto la norma, Francesco Nitto Palma, anche lui di FI, è sconcertato: «Sono un ex magi- strato anch’io, ma se non fossi già andato in pensione potrei trovarmi in futuro a giudicare Renzi o Grillo». Palma è anche ex presidente dell’altra commissione Giustizia, quella di Palazzo Madama, che aveva passato le carte ai colleghi di Montecitorio nel lontano marzo 2014.
Il timing complica la questione: solo oggi la Camera tira fuori dal cassetto un disegno di legge che si vide arrivare dal Senato all’inizio del governo Renzi. È solo perché Michele Emiliano si è appena candidato segretario del Pd e il resto del partito, da Renzi a Orlando, vuole screditarne le aspirazioni? Sarebbe ingiusto metterla in questi termini. L’accelerazione di Montecitorio sul provvedimento non è che sia arrivata proprio in concomitanza con la discesa in campo del governatore pugliese.
Dopo i primi annunci della sfida a Renzi da parte dell’ex procuratore ( e sindaco) di Bari, non si era mosso granché. A scuotere i deputati è stata casomai una campagna di stampa che a quel punto si è messa in moto con vigore. E che poi ha assunto un peso e una forza sempre maggiori col passare dei giorni.
Il ministro Andrea Orlando è parte in causa, anche se il ddl in questione è di matrice parlamentare: «Emiliano non c’entra, non si tratta di norme così pesanti, e comunque il testo era fermo da tre anni». Se alcuni grandi giornali, a cominciare dal Corriere della Sera, sono andati in pressing sul Parlamento, è perché qualcosa è cambiato fuori dai palazzi della politica.
E se il Parlamento e la politica in generale si sono dati una mossa solo dopo che i media lo hanno chiesto, non c’è da stupirsi e soprattutto non si può dire che sia un fatto nuovo. In materia di giustizia è quasi sempre così: anche la legge Severino, piena zeppa di contenuti discutibili a cominciare dal traffico d’influenze, è nata per soggezione del potere legislativo a un’incontrollata onda di malcontento, cavalcata con impeto dal Movimento di Grillo.
Checché se ne dica anche stavolta si assiste a quella dinamica: tutto tace, si candida Emiliano, i giornali si muovono, il Csm pure ( nei confronti di Emiliano) e la politica arriva buona ultima. Si avverte più che in passato evidentemente una fragilità della magistratura nell’immagine popolare. È come se, dopo un decennio di invettive anticasta, sia la grande stampa sia l’opinione pubblica diffusa si sentano esauste: inutile o quanto meno avvilente sparare sempre e solo sui politici, serve come minimo un nuovo, ulteriore bersaglio.
Ed ecco servita la magistratura, che già vacilla per le convulsioni del processo mediatico, in cui spesso finisce accusato ( dal popolo e dalle tv) anche qualche gip troppo prudente e rispettoso dei codici nell’applicare le misure cautelari. I giudici sono meno popolari, lo si coglie anche da critiche alle fughe di notizie come quelle avanzate una settimana fa dal vicepresidente dell’organo di autogoverno dei magistrati Giovanni Legnini.
Il vento è cambiato. Ma come al solito la politica se ne accorge tardi e, anziché cercare di governarlo, se ne lascia trascinare senza chiedersi esattamente dove porta quella spinta che soffia alle sue spalle.