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Putin
Mettiamo per un momento da parte le speculazioni sulla salute dello “zar”, sul presunto tumore a uno «stadio avanzato» e la presunta operazione avvenuta lo scorso aprile, sulla misteriosa malattia degenerativa che lo starebbe paralizzando, sulle sua stessa sanità mentale. Con ogni probabilità si tratta di grossolana propaganda di guerra. E mettiamo da parte anche le voci che da Washington a Londra si rincorrono evocando un imminente colpo di stato nei corridoi del Cremlino perché fanno parte dello stesso filone tossico. Buttate lì, magari nella speranza che le profezie si autoavverino.
La verità è che il 69enne Vladimir Putin, potrebbe guidare la “sua” Russia fino al 2036 eguagliando la reggenza di Pietro il grande, e questo grazie a una legge approvata dalla Duma lo scorso anno e poi ratificata tramite referendum che prolunga di altri due mandati il suo diritto a restare presidente della federazione.
Ma neanche Putin è eterno e prima o poi un cambio della guardia a Mosca sarà inevitabile. L’argomento in Russia è tabù e i media raramente osano ricamare sulla prestigiosa successione. Allo stato attuale non esiste alcun delfino designato, solo una piccola rosa di nomi possibili, fedelissimi della cerchia ristretta o dell’élite militare.
In caso di potere vacante al Cremlino l’articolo 92 della costituzione russa prevede due scenari: l’impedimento temporaneo del presidente a esercitare le sue funzioni con il governo ad interim del primo ministro. Se l’impedimento diventasse permanente sono previste entro tre mesi nuove elezioni.
In entrambi gli scenari è dunque il primo ministro a gestire la delicata transizione. Dal 2020 quella poltrona è occupata da Michail Misustin, un economista di 56 anni con un passato da burocrate a capo delle agenzie del catasto e del servizio fiscale generale. Molto popolare tra gli elettori, non sembra avere né il profilo, né l’ambizione per succedere a Putin. Lontano dai circoli che contano e dalle alte sfere delle forze armate e dell’intelligence, Misustin è il classico uomo-ombra del presidente, un bonario amministratore scelto per la mitezza del carattere e le sue qualità di tecnico. Durante questi tre mesi e mezzo di guerra non praticamente proferito parola.
Molto più consistenti invece le quotazioni di Nikolaj Patruchev, fedelissimo del presidente di cui è consigliere da anni; decorato con il grado di generale, a lungo a capo del servizio federale di sicurezza, il Fsb ex Kgb, lo stesso ecosistema dove è cresciuto Putin con il quale vive una specie di simbiosi fin dai tempi della gioventù.
Sono coetanei e nati nella stessa città, San Pietroburgo, un tempo Leningrado. E, a differenza di Misustin, condivide con il suo capo la concezione millenarista della “grande Russia”, l’idea che la nazione abbia una missione da compiere nel mondo, fiero avversario dell’ «imperialismo atlantico» e della «decadenza occidentale», convinto che Washington voglia annientare la sua patria e la sua cultura: «gli Stati Uniti preferirebbero che non esistessimo». È stato il primo a conoscere la decisione di invadere l’Ucraina. Secondo i servizi statunitensi Patruchev è un “falco” con idee ancora più radicali di Putin e avrebbe regolato i conti con Kiev da molto prima.
Un altro papabile sarebbe l’attuale ministro della Difesa Sergej Sojgu. Nonostante il fallimento del “conflitto lampo” e i tanti errori commessi dai generali sul campo di battaglia, Putin non ha mai criticato il suo ministro di cui ha grande stima e che rimane saldamente al suo posto dal 2012. Se il bilancio dell’intelligence russa nell’ultimo decennio è piuttosto negativo (specie nella lotta al terrorismo) Sojgu può rivendicare i grandi successi militari della Russia, dall’annessione della Crimea nel 2014, alla sanguinosa offensiva in Siria contro i miliziani dell’Isis. È un putiniano di ferro, gran fautore della “denazificazione” dell’Ucraina e nostalgico dell’Urss. Nel 2017 ha fatto modificare le uniformi dell’esercito ispirandosi a quelle della «vittoria» del 1945.