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È l’incertezza che domina l’umore degli italiani. Essa produce malessere, inquietudine, ansia. Si ricorre ad espedienti individuali per arginare la crisi che è sociale, ma soprattutto personale, senza invero ottenere grandi risultati. In Italia si vive male, insomma, nonostante le apparenze. Ed il prossimo futuro non si annuncia migliore.
L’anno non finisce bene, il nuovo che nasce è destinato a ripetere, se non a moltiplicare, le inquietudini che hanno scandito la nostra vita finora, almeno da quando la politica, l’economia, la cultura soprattutto non sono riuscite più a dare risposte accettabili alle domande dei cittadini. Avvertono l’abbandono, la solitudine, il disagio di vivere senza la prospettiva di un domani soddisfacente. E ciò li rende, secondo l’ultimo Rapporto CENSIS ( presentato giorni fa a Roma), addirittura “furiosi”.
Non è il solito catastrofismo che stagione dopo stagione appare per poi eclissarsi e nuovamente ricomparire, come è stato negli anni Ottanta e Novanta. Da qualche tempo, più o meno dal 2015, si è “strutturato”. E nessuno ha voglia di niente. Calano perfino i consumi in un Paese che non è certo una formica ed aumentano le liquidità bancarie per la paura del domani. Il 69% degli italiani è incerto e frastornato.
E non potrebbe essere diversamente di fronte alla rarefazione della rete di protezione del sistema sociale, della decadenza del welfare pubblico, della diminuzione del potere d’acquisto, dello spopolamento delle aree rurali e della crescita a dismisura di quelle urbane dove il senso dell’esilio è più sentito ed il dato comunitario è pressoché inesistente.
L’ansia da declassamento sociale si tocca con mano e innesca una competizione paranoica esplicitata nel malumore quotidiano e nella litigiosità permanente, ad esse si accompagna la diminuzione oggettiva di redditi e retribuzioni: dai depositi bancari e dagli investimenti “sicuri” si ricava poco o niente; le incentivazioni ordinarie praticamente non esistono più; si è costretti, soprattutto se giovani, ad accontentarsi di contratti a termine pagati pochissimo, non in grado di supportare una famiglia o presentarsi ad un banca per chiedere un mutuo.
Perfino l’investimento sul mattone e l’acquisto dei BOT sono decaduti. Segnali di sfiducia crescente cui si accompagna il terrore di prelievi improvvisi dai conti correnti. Chi avverte l’impoverimento potrebbe essere animato dal furore o dalla depressione: infatti si consumano in Italia più ansiolitici di sempre.
Qualcuno prova a difendersi, al ribasso: fa spese oculate, frequenta i discount, apparecchia piccoli salvadanai di sopravvivenza. E il tempo degli eccessi è una favola, quando gli “eccessi”, beninteso, erano l’ultimo modello di frigo o di televisore, i quindici giorni al mare e qualche sfizio domestico come il motorino al figlio quattordicenne.
Si dice che la società ansiosa sia macerata dalla sfiducia. E ciò è testimoniato dal calo demografico che assume, anno dopo anno, proporzioni inquietanti. La popolazione italiana è “rimpicciolirà”, invecchiata, le nascite sono pochissime. Problemi morali? In minima parte. Sostanzialmente sono problemi sociali quelli che determinano la denatalità. Dal 2015, quando è cominciata a manifestarsi la decrescita demografica, sconosciuta alla nostra storia unitaria, si contano 436.066 cittadini in meno, nonostante l’incremento di 241.066 stranieri residenti. Nell’anno passato i nati sono stati 439.747, vale a dire 18.404 in meno rispetto al 2017. Ma anche gli immigrati, adeguandosi ai nostri standard di vita e di costumi, fanno meno i figli: dunque, neppure loro - come cinicamente sostiene qualcuno - salveranno le nostre pensioni.
Al calo demografico fa riscontro l’invecchiamento della popolazione. Si vive di più, oltre gli ottant’anni ormai con una maggiore aspettativa di vita delle donne, ma sale la spesa sanitaria che un sistema di welfare in dissesto non può sopportare: bisogna augurarsi di stare in buona salute fino all’ultimo giorno della propria vita, ma è un’utopia che genera altri malumori.
Abbiamo davanti uomini e donne piegati dalla paura del domani. Innaturale. Un fenomeno sociologicamente da indagare a fondo dal momento che una società che non ha slanci vitali, neppure per ciò che concerne i divertimenti, è una società votata alla decadenza estrema e preda di pulsioni disfattiste nelle quali rientra il bluff dell’occupazione che non produce reddito e crescita.
Siamo abituati a leggere da qualche tempo cifre mirabolanti sulla “ripresa”, su nuovi posti di lavoro, sull’ingresso nei processi di produzione dei giovani. Ma quando mai? Rispetto al 2007, dieci anni abbiamo contato 321.000 occupati in più: la tendenza è continuata anche quest’anno. Ma, osserva il Censis, “Il riassorbimento dell’impatto della lunga recessione nasconde però alcune criticità. Il bilancio dell’occupazione è dato da una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di 1,2 milioni di occupati a tempo parziale. Nel periodo 2007- 2018 il part time è aumentato del 38% e anche nella dinamica tendenziale ( primo semestre 2018- 2019) è cresciuto di 2 punti. Oggi un lavoratore ogni cinque ha un impiego a metà tempo. Ancora più critico è il dato del part time involontario, che riguarda 2,7 milioni di lavoratori. Nel 2007 pesava per il 38,3% del totale dei lavoratori part time, nel 2018 rappresenta il 64,1%. E tra i giovani lavoratori il part time involontario è aumentato del 71,6% dal 2007. Così oggi le ore lavorate sono 2,3 miliardi in meno rispetto al 2007 e parallelamente le unità di lavoro equivalenti sono 959.000 in meno. Nello stesso periodo le retribuzioni del lavoro dipendente sono diminuite del 3,8%: 1.049 euro lordi all’anno in meno. I lavoratori con retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi sono 2.941.000: un terzo ha meno di 30 anni ( un milione di lavoratori) e la concentrazione maggiore riguarda gli operai ( il 79% del totale)”.
Un quadro tutt’altro che rassicurante. Le cifre vanno lette ed interpretate, diversamente diventano la consolazione pelosa di una politica che falsifica la realtà. Ed è proprio alla politica che gli italiani hanno voltato le spalle. Ad essa gli italiani guardano come ad una fiction. La testimonianza dell’astensionismo è eloquente: nessun altro soggetto è più detestato dei politici da parte degli italiani che proprio non li vorrebbero vedere nei programmi televisivi.
Il riassetto sociale ed istituzionale è desiderato, ma a condizione che come un demiurgo appaia l’uomo forte. Questa è pretesa insensata è coerente con il malessere. Che cosa significa “uomo forte”? Autoritario o autorevole? Legittimato democraticamente oppure plebiscitariamente investito di pieni poteri? E’ necessario fare chiarezza.
Se si allude a forme paranoiche di potere personale, illegittimo e costituzionalmente non corretto, la sensazione di esasperazione è ancora più forte. Ma se, come la maggior parte degli italiani da alcuni decenni ritiene che è necessario procedere ad una riforma che riconduca il Parlamento nelle sue specifiche prerogative legislative e di controllo degli atti dell’esecutivo e che questi possa essere al vertice rappresentativo da un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo, scendo il modello americano o francese, non vi è alcun motivo di preoccupazione.
Quel che preoccupa è gettare nel calderone una “sensazione”, appunto per asseverare lo stato di malessere. Ciò non può che nuocere alla costruzione di una democrazia decidente e ad una responsabilità politica che oggi latita in ogni settore, aggiunge ci che la rivitalizzazione della forma partito è quanto mai indispensabile difronte al dilagare dello spontaneismo di movimenti che agiscono sulla conduzione, si nutrono del malessere, ambiscono a creare classi dirigenti o precarie, incolte e abborracciate, aggiungendo benzina al fuco che già divampa nella sfera politica.
Il presidenzialismo è un grande tema politico- istituzionale che ha attraversato quasi tutte le famiglie politiche italiane. Anche all'Assemblea costituente ci fu chi propose, senza successo, all'attenzione la ' soluzione presidenzialista': i rappresentanti del Partito d'Azione e tra essi, in particolare, Piero Calamandrei e Leo Valiani s'impegnarono a fondo in una delle Sottocommissioni dell'Assemblea per far valere le ragioni del presidenzialismo.
Negli anni Sessanta fu il repubblicano Randolfo Pacciardi ad imbracciare la bandiera del presidenzialismo al punto di essere accusato di sovversivismo e di tentazioni “golpiste”. Agli inizi degli anni Settanta furono alcuni ' giovani leoni', come si definirono allora, della Democrazia cristiana, aderenti al gruppo ' Europa ' 70', che posero all'attenzione le tematiche presidenzialiste.
Poi venne la stagione socialista: politici come Bettino Craxi ed intellettuali come Luciano Cafagna rilanciarono, tra la seconda metà dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, la necessità di operare un radicale mutamento nella forma di governo del nostro Paese. Non si può dimenticare, naturalmente, che il Movimento sociale italiano fece del presidenzialismo, fin dalla sua nascita nel dicembre 1946, uno dei temi centrali e più incisivi della sua propaganda istituzionale, da Costamagna ad Almirante.
Ricordo anche una fiorente pubblicistica che circa trent’anni fa rianimò il dibattito sul presidenzialismo grazie, soprattutto, all'attivismo del professor Gianfranco Miglio e del cosiddetto ' Gruppo di Milano'. La tematica presidenzialista, quindi, ha avuto lungo corso nella storia della Repubblica, sia da punto di vista dottrinario che nel dibattito politico.
Il presidenzialismo non bisogna considerarlo come una sorta di contropotere, ma come un elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione che è uno dei fattori necessari alla modernizzazione del Paese. Da essa, dal momento decisionale ' forte', non si può prescindere se si intende procedere alla modernizzazione sociale e delle strutture civili del Paese, se non si dotano, cioè, i centri decisionali di poteri efficaci che, al momento, non dimentichiamo che vengono esercitati da soggetti diversa dalla classe politica, e dunque privi di legittimazione democratica, come supplenti insomma, che agiscono sulla spinta di interessi personali o di gruppo.
Il presidenzialismo, dunque, è un elemento di partecipazione, ma è anche di chiarificazione all'interno dei rapporti tra i poteri dello Stato. Con la sua adozione si stabilisce una netta linea di demarcazione tra i controllori ed i controllati, tra potere legislativo e potere esecutivo. Il Parlamento può effettivamente esercitare un controllo sul governo avendo questi la sua fonte di legittimazione fuori dalle aule parlamentari.
Se le forze politiche intendessero spiegare, o quantomeno avviare un opportuno ed approfondito dibattito sulla questione, a più di settant’anni dalla emanazione della Costituzione ( nel frattempo non c’è stato Paese che non l’abbia rivista), probabilmente preciserebbero, sgombrando il campo da imbarazzanti equivoci, la passione per l’” uomo forte” di cui si discute.
E se nell’ordinaria amministrazione spazzassero via i fattori di pressione sul ceto medio produttivo e rimuovessero le condizioni che inducono i soggetti più vulnerabili ad abbandonare la scuola, forse una ripresa di fiducia la si potrebbe intravedere.
Insomma, per fare più figli, per avere più occupati e laureati, per evitare che i giovani se ne vadano dall’Italia bisogna ripensare il sistema. E non è con le suggestioni estemporanee che un lavoro del genere si può compiere. Ecco perché parlare di presidenzialismo vuol dire “rivedere” le strutture del potere e non solo un meccanismo politico al cui vertice c’è un “decisore” eletto dal popolo.