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mario draghi giorgia meloni (1)
Che cosa può fare l’esecutivo Meloni, quali politiche può mettere in campo la nuova coalizione di destra? Quali vie può intraprendere per cambiare volto al Paese - pardon, alla Nazione - secondo quella che è sempre stata l’intenzione ritualmente dichiarata di ogni nuovo inquilino di Palazzo Chigi?
Meloni condivide quell’ambizione con tutti, ma proprio tutti i presidenti del Consiglio che l’hanno preceduta. Ma nel caso più inedito dell’intera storia repubblicana, e cioè il primo governo di vera destra guidato da una donna, il libro dei sogni non lo si potrà probabilmente neanche aprire. Il governo parte su un binario stretto, e i rumours che raccontavano come Meloni avrebbe preferito (a differenza di Salvini e Berlusconi) andare a elezioni alla scadenza naturale della legislatura (febbraio 2023) trovano fondamento in un dato oggettivo: per questo autunno- inverno è da tempo previsto un vortice di problematiche.
Meloni si trova - come lei stessa ha detto ieri alle Camere - con « la nave Italia in tempesta». Una guerra alle porte ma che insidia dall’interno una maggioranza che non ha una posizione internazionale condivisa - anche al di là della fermezza della presidente del Consiglio. E soprattutto con fosche previsioni, da poco esplicitate tra l’altro dal Fondo Monetario Internazionale: crescita al lumicino, e una spirale inflazionistica alimentata dagli alti costi dell’energia, che può sfociare in stagflazione. E bloccare l’Azienda Italia, il motore produttivo del Paese. Un quadro che Meloni deve aver messo a fuoco nel passaggio di consegne con Mario Draghi.
In più, si ritrova col piano Pnrr lasciato in eredità da Draghi ma ancora largamente da attuare. E dunque, con miliardi di euro concessi dall’Europa (circa 200) per la spesa strutturale, ma con la spesa corrente bloccata: e cioè anche con cifre insufficienti al sussidio a imprese e famiglie per il caro bollette. Per capirci: la Germania, che non ha come l’Italia un debito pubblico che veleggia verso il 145 per cento del Prodotto Interno Lordo (circa 1.700 miliardi di euro), e gode di forti plusvalenze accumulate negli hanno ha potuto stanziare 200 miliardi. Noi, forse, arriveremo a 10 miliardi.
Dunque la via è stretta, e le politiche del governo necessitate. Le strade possibili sono due: mantenere le promesse fatte all’elettorato, che erano abbastanza vaghe nel programma di coalizione ma che sono state gridate in tutti i comizi: taglio delle tasse, cancellazione della Fornero, «pace fiscale», ovverosia condoni, e via spendendo. Anche se nel discorso di insediamento Meloni è stata cauta, parlando di flat tax solo per una quota di già ricchissime partite Iva (quelle da 100mila euro l’anno) e solo di qualche rimodulazione, tutti sanno che Salvini la pensa diversamente: lui stesso ha parlato in tv di qualcosa che complessivamente somiglia molto a uno shock fiscale. Se la «linea Salvini» prevalesse significherebbe confliggere frontalmente con l’Europa - che da anni ci chiede di limare le tasse sul lavoro - e, data la fase, anche con i mercati.
L’esempio di Liz Truss, la premier britannica dimessasi dopo soli 44 giorni, sta lì a rendere plasticamente la fase: misure liberiste come uno shock fiscale in questa fase terrorizzano i mercati. L’Italia verrebbe impallinata dalle agenzie di rating (che per ora stanno alla finestra) mandando in fibrillazione l’euro. Rendendoci invisi a Bruxelles, e proprio quando la Ue ha in agenda la revisione del famoso Patto di Stabilità. Per farla breve: un copione analogo a quello che nel 2011 vide l’Italia a rischio default, e a rischio di commissariamento della trojka Ue- Bce- Fmi. Come dire che, se seguisse le intenzioni che ha sin qui manifestato Salvini, l’esecutivo Meloni finirebbe o commissariato, o uscirebbe di scena (come fu nel 2011, con le dimissioni di Berlusconi e l’arrivo di Monti).
Dunque, se il governo seguirà il consiglio elargito da Draghi durante il passaggio di consegne «l’Italia non può isolarsi in Europa» - e se quella frase è stata compresa sin nel suo sottotesto, ovvero il bilancio pubblico non lo permette - il governo proseguirà la sua azione. Ma non mantenendo quel che è stato promesso in campagna elettorale.
In sostanza e semplificando ci pare che le strade possibili siano due: mettere in atto le politiche annunciate nelle piazze in campagna elettorale, ponendo a rischio la tenuta del governo e dello stesso Paese. Oppure proseguire, sia pure magari con minimali aggiustamenti, la politica economica impostata da Mario Draghi. In quest’ultimo caso, per reggere e anche per trovare al proprio interno una compattezza d’intenti che non ha, la maggioranza di governo agiterà il Paese con battaglie culturali: gli sbarchi e i migranti, i diritti civili, l’aborto… E, soprattutto, la riforma della Costituzione: il presidenzialismo.