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Digna Ochoa era una donna tosta e coraggiosa, un’avvocata che difendeva i diritti della parte più emarginata e debole della società messicana: campesinos, oppositori politici, sindacalisti. Cause difficili, ostacolate da avversari potenti e senza scrupoli e che le sono costate la vita.
A oltre vent’anni dal suo omicidio, di cui ancora non si conoscono sicari e mandanti, il Messico è stato condannato dalla Corte interamericana dei diritti umani (l’equivalente della nostra CEDU) per non aver assicurato la protezione della donna per negligenza nell’inchiesta sulla sua uccisione e per aver violato il diritto della sua famiglia a conoscere la verità.
Lo scorso maggio l’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo (Oiad), in collaborazione con l’avvocata della vittima Karla Michel Salas, aveva presentato un ricorso Amicus curiae (ovvero da parte non in causa) presso la Corte interamericana in cui si sottolineavano i ripetuti errori commessi autorità giudiziarie nel corso dell’inchiesta e i gravi pregiudizi subiti dalla famiglia. Per questo gli alti giudici della Corte interamericana impongono al Messico di «garantire maggiore protezione ai difensori dei diritti umani come giornalisti, attivisti e avvocati», e di «individuare gli autori dell’omicidio di Ochoa». C’è da dire che il nuovo presidente Obrador in primavera aveva ammesso pubblicamente le gravissime responsabilità di magistrati, poliziotti e della stessa classe politica chiedendo la riapertura delle indagini.
Digna Ochoa è stata assassinata il 19 ottobre del 2001 nello studio legale in cui lavorava, a città del Messico. Aveva soltanto 37 anni. L’hanno trovata stesa sul pavimento con un proiettile in testa. A caldo il procuratore Bernardo Bàtiz aveva evocato la pista dell’«omicidio politico», il che era del tutto logico, ma dopo pochi giorni cambiò radicalmente versione, ipotizzando addirittura un «suicidio». Perché questa repentina conversione?
Il sospetto, peraltro mai dimostrato, che Bàtiz avesse subito pressioni dall’alto, appare più che verosimile, considerando che tra i nemici dell’avvocata figuravano importanti imprenditori, governatori, membri delle forze armate e della polizia. Il clima era terribile e l’impunità di cui godevano pressoché assoluta. Tra la fine degli anni 90 e i primi anni 2000 decine di esponenti dell’esercito messicano sono stati infatti denunciati per violazioni dei diritti umani, specialmente nei confronti dei campesinos che lottavano contro i programmi di disboscamento promossi dai diversi presidenti, da Vicente Fox a Enrique Peña Nieto, passando per Felipe Calderón.
Inoltre la stessa autopsia stabilì che il proiettile è entrato nella tempia sinistra mentre la donna era notoriamente destrimane. Una circostanza del tutto ignorata dalla procura che ha chiuso frettolosamente l’inchiesta, appoggiata dal quotidiano ultraconservatore El Universal e dalla sua campagna denigratoria nei confonti della famiglia e degli avvocati di Ochoa.. E poi perché mai avrebbe dovuto togliersi la vita? Digna Ochoa era nota a tutti per la passione civile e per l’entusiasmo con cui difendeva i suoi clienti, molto spesso a titolo gratuito. Aveva scelto di essere un’avvocata dopo il sequestro del padre, un contadino sindacalista rapito e torturato dalla polizia militare che non aveva mezzi economici per potersi permettere assistenza legale.
Nel corso degli anni ha subito costanti minacce e ben tre sequestri di persona da parte di gruppi paramilitari ma anche per mano di membri regolari dell’esercito. L’hanno picchiata, l’hanno violentata e intimidita e nel gennaio 2000 è stata costretta a lasciare il Messico per trasferirsi negli Stati Uniti in quanto lo Stato non era più in grado di garantirle protezione, ammesso che l’abbia mai fatto. Un “esilio” che dura solo 12 mesi, il richiamo della giustizia sociale è troppo forte per rimanere confinata negli Usa e restarsene con le mai in mano. Nel 2001 ritorna in Messico per difendere dei militanti ecologisti nello Stato di Guerrero. Pochi mesi dopo sarebbe stata uccisa.