PHOTO
È il testo sacro. Mille volte in mille film, l’abbiamo sentito recitare con passione commossa, la mano sul cuore. We hold these Truths to be self- evident, that all Men are created equal, thar they are endowed by their Creator vith cercain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty, and the pursuit of Happines: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità…”.
Per questo fine sono istituiti i governi, che derivano i loro poteri dal consenso dei governati; e il popolo, ogni volta che questi fini sono negati, ha il diritto di ribellarsi. È con questa dichiarazione che nascono gli Stati Uniti d’America; e al congresso di Filadelfia, il 4 luglio 1776, tredici colonie della costa atlantica nordamericana si dichiarano indipendenti dall’impero britannico. C’è tutto, in quella dichiarazione, è una stella polare: semplice, facile, radicale ( nel senso che va alla radice): tutti gli uomini sono stati creati uguali; tutti sono titolari di inalienabili diritti. Chi, in questi giorni, a Charlottesville o altrove, rivendica una supremazia bianca, un “primato”, una purezza razziale, lo faccia con azioni violente, o anche “semplicemente” teorizzandolo, è in radicale contrasto con quanto prescritto dalla Dichiarazione d’Indipendenza. Questo avrebbe dovuto e potuto ricordare il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, invece di limitarsi a una blanda generica condanna di tutte le violenze.
Il presidente Trump non è solo l’arrogante, sguaiato, pasticcione che sappiamo. È ignorante. Forse neppure conosce l’esistenza di tale Dichiarazione. C’è chi ritiene che il presidente non si vuole alienare quella parte di elettorato iperconservatore che costituisce la spina dorsale del suo consenso. La cosa presuppone un calcolo, un ragionamento. Chissà… Quando durante la campagna elettorale, gli rinfacciarono l’endorsement di David Duke, leader del Ku klux klan, Trump disse: «Giusto per capirci: non so niente di Duke, chiaro?». Forse è sincero; e se lo è, non è che la cosa sia meno grave.
Come sia, decine di piccole o meno piccole formazioni di suprematisti bianchi lo sostengono; personaggi come William Johnson, presidente della “American Freedom Party”: «Siamo per uno Stato bianco e per la balcanizzazione degli Stati Uniti. L’immigrazione nei paesi bianchi è stata aperta per troppi anni, e gli immigrati e i rifugiati hanno sostituito i nostri standard con i loro» Brian Levin, direttore del “Centro per gli studi sull’odio e l’estremismo” di San Bernardino, California, avverte che questi gruppi, esistenti da anni, finalmente avevano trovato un personaggio famoso e carismatico in grado di riunire attorno a sé tutta una parte dell’elettorato: «Trump ha aperto le porte della politica a tutti quei gruppi ( suprematisti, neonazisti, ex- membri del Ku Klux Klan) che in passato non si sarebbero mai sognati di riunirsi per sostenere un unico candidato».
Personaggi come Duke. Fin dagli anni ‘ 60, studente all’università della Louisiana, Duke milita in gruppi neonazisti. In un reportage del 1991 della rivista Newswe-ek, si racconta che vent’anni prima Duke si era presentato a una manifestazione vestito da Hitler. Poi entra nel Klan. Senza successo si propone come candidato al Senato nel 1975 e nel 1979 nel Partito Democratico ( sì, avete letto bene). Nel 1991 si candida come deputato repubblicano per la Louisana; interviene lo stesso presidente George Bush: «Se qualcuno sostiene che l’Olocausto non è esistito, penso che quella persona non merita neanche un po’ di fiducia dei cittadini». Erano altri repubblicani… Il KKK: comunemente si pensa sia un fenomeno diffuso soprattutto nel sud degli Stati Uniti. Chi ha visto “Django Unchained” di Quentin Tarantino ne avrà colto l’immagine ridicolizzata. O anche in “Fratello, dove sei? ”, dei fratelli Coen. Negli anni Venti il Klan assume una dimensione nazionale e urbana: a Denver, Detroit e Philadelphia può contare su oltre 20mila affiliati. Nel 1925 il KKK dà prova di popolarità e influenza politica organizzando una marcia lungo Pennsylvania Avenue a Washington, partecipano oltre 40mila persone a volto scoperto. Durante il periodo dei movimenti per i diritti civili negli anni Sessanta, l’attività del KKK si concentra nell’area meridionale del paese. Le roccaforti in città come Birmingham, in Alabama; Greensboro e Raleigh, in North Carolina; Jacksonville, in Florida. Oggi la “mappa dell’odio” del Southern Poverty Law Center individua unità attive del KKK in 34 dei 50 stati americani, dal New England alla costa occidentale. Una inchiesta condotta da David Cunningham, Rory McVeigh e Justin Farrell, dimostra che il KKK è stato uno dei fattori determinanti nel più grande spostamento politico americano degli ultimi cinquant’anni: lo schieramento del sud degli Stati Uniti con il Partito Repubblicano. Il gruppo ha contribuito a questo fenomeno incoraggiando gli elettori ad abbandonare i candidati Democratici – sostenitori di riforme a favore dei diritti civili – portando in primo piano il conflitto razziale, e allineando in modo sempre più evidente queste questioni con la linea del partito Repubblicano.
Il Klan: nasce ufficialmente a Pulaski, Tennessee, il 24 dicembre 1865, formato da reduci confederati, fautori di una rigida e radicale supremazia dei bianchi. Il primo “Grande Mago” è il generale Nathan Bedford Forrest. Nel 1871 il presidente degli Stati Uniti Ulysses S. Grant lo mette fuori legge.
Rinasce nel 1915, per iniziativa di William J. Simmons: sostiene che la povertà dei bianchi è provocata dai neri, dai banchieri ebrei e da altre minoranze. Niente di nuovo sotto il sole vero? Nella seconda metà del XX secolo il Klan si estende dal Sud fino agli Stati del Midwest e del Nord ed anche in Canada. Controlla i governi degli stati dell’Indiana, dell’Oklahoma e dell’Oregon. Rivendica di aver reso possibile l’elezione del presidente Warren Harding. Dichiara quattro milioni di affiliati. Anche il trentatreesimo presidente, Harry Truman, democratico, è sul punto di diventarne membro, fermato solo dalle posizioni anti- cattoliche del Klan. Un altro ex membro del Klan che conquista la ribalta nazionale è Hugo Black, rappresentante dei democratici alla Corte Suprema.
Come si vede è un qualcosa di carsico: la questione di abbattere o meno una statua dedicata al generale sudista Robert E. Lee, in fin dei conti è solo un pretesto. Tra l’altro, chissà quanti – a favore o contrari alla statua – sanno davvero qualcosa, sul conto di questo militare. Come generale, sapeva il fatto suo: grande abilità strategica e tattica, ai nordisti dà del filo da torcere per anni, durante la guerra di Secessione, e diventa ben presto il principale condottiero militare confederato. Membro dell’aristocrazia virginiana, ma non è mai stato un gran campione dello “schiavismo”, considerati i tempi. Di fatto personalmente non ha mai posseduto più di una mezza dozzina di schiavi. E’ anche contrario alla “secessione”; in una lettera del 1861 scrive chiaramente che la ritiene «un tradimento degli sforzi dei Padri Fondatori» ; tuttavia la sua lealtà nei confronti della natia Virginia gli fa raggiungere le fila della Confederazione.
Nessuno si sogna di chiedere la rimozione di altre statue, come, per esempio, quella di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, considerato uno dei padri fondatori della nazione americana. Eppure Jefferson possedeva piantagioni e oltre duecento schiavi al seguito. La libertà da lui tanto celebrata ( vedi dichiarazione d’indipendenza), evidentemente non riguardava quei poveretti. Non era il solo, Jefferson: come lui, Benjamin Franklin, e lo stesso George Washington: ricchi proprietari terrieri, con annesse legioni di schiavi. Si credeva, all’epoca, che la razza africana fosse inferiore. Lo stesso Jefferson consapevole della contraddizione, afferma che «mantenere in vigore la schiavitù era come tenere un lupo per le orecchie: si vorrebbe lasciare la presa ma non lo si può fare per paura di essere divorati». Sa bene che lo schiavismo è una barbarie, ma non intende mettere in discussione il “sistema”. Lo stesso Congresso rivendica con chiarezza che gli schiavi in America sono una grande risorsa economica. Lo stesso Jefferson, nel suo testamento si impegna a pagare i debiti contratti attraverso la vendita dei suoi schiavi. Anche questa è America; e quella di oggi ne è la legittima figlia.