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«Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi- Contini - di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga - e di quanti altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I d’Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l’ultima guerra. Ma l’impulso, la spinta a farlo veramente, li ebbi soltanto un anno fa, una dome- nica d’aprile del 1957». È l’incipit del romanzo di Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
da cui è stato tratto un brano come una delle tracce per la prova di italiano agli esami di maturità iniziati ieri: il brano racconta l’episodio dell’allontanamento del narratore dalla biblioteca comunale, «un posto che bazzicavo fino dagli anni del ginnasio, e dove mi sentivo un po’ come a casa», in quanto ebreo.
«L’ottimo Poledrelli aveva spiegato a voce alta, ufficiale, come il signor direttore avesse dato in proposito ordini tassativi: ragione per cui – aveva ripetuto – facessi senz’altro il piacere di alzarmi e di sgomberare».
Sono passati quasi vent’anni dai fatti e il narratore, in gita a Cerveteri, improvvisamente ricorda gli eventi accaduti. È il mondo della sua memoria, ma è anche un mondo che non esiste più, che è stato spazzato via, dal fascismo, dalla guerra. «Io riandavo con la memoria agli anni della mia prima giovinezza e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a via Montebello. Rivedevo i grandi prati sparsi di alberi, le lapidi e i cippi raccolti più fittamente lungo i muri di cinta e di divisione e, come se l’avessi addirittura davanti agli occhi, la tomba monumentale dei Finzi- Contini».
Il romanzo fu edito da Einaudi nel 1962, quattro anni dopo Se questo è un uomo, di Primo Levi. Roman- zi che ebbero un grande successo e che riproponevano, per la prima volta, la questione delle Leggi razziali del 1938 – una questione rimossa, come rimosso era stato l’internamento degli ebrei italiani e il loro avvio ai campi di concentramento e allo sterminio. Nel libro di Bassani, il fascismo, la persecuzione degli ebrei, la guerra rimangono oltre le mura del giardino – che è tutto il mondo del racconto: la vicenda si svolge tra il 1938 e il 1941, e il giardino sembra tenere al riparo da quello che sta succedendo fuori.
L’accostamento biografico tra i personaggi del romanzo e la realtà storica fu immediato. Bassani stesso apparteneva a una famiglia della buona borghesia ebrea di Ferrara e i Finzi- Contini sembravano ispirati a una ricca famiglia ebrea che ebbe un destino molto simile a quello dei protagonisti del romanzo: il padre e la madre morirono a Auschwitz, il figlio Uberto, morì di linfogranuloma nel 1942 come l’Alberto del romanzo, e la figlia Giuliana invece sopravvisse alla guerra e fu sepolta nel cimitero ebraico di Ferrara.
I Finzi- Contini vivono appartati, e così anche i ragazzi, che non vanno neppure a scuola. Poi, un giorno il narratore viene allontanato dal Circolo del tennis – proprio per le leggi razziali – e Alberto e Micòl, la giovane protagonista, lo invitano a giocare nel campo del giardino, dove si incontrano altri ragazzi ebrei e un giovane che viene da Milano e che si professa comunista, che affascina Alberto. È un romanzo d’amore, quello del protagonista verso Micòl – «spicca come un fiore grazioso sull’orlo di una catastrofe mondiale», scrisse il critico Oreste Del Buono –, non ricambiato, ma anche un romanzo sulla giovinezza, le sue speranze e gli inevitabili tradimenti che il futuro riserva. La storia irromperà: l’intera famiglia Finzi- Contini verrà catturata nell’autunno del 1943 dai repubblichini e, dopo un breve periodo trascorso nel carcere ferrarese di via Piangipane, deportata nei campi di concentramento prima di Fossoli ( Carpi), poi della Germania, destinati a morire nei lager nazisti. La speranza – l’illusione – che tenersi lontano da quanto accadeva intorno, aspettando una loro evoluzione e un cambiamento presunto inevitabile, si rivelerà fatale.
Le neo- avanguardie letterarie attaccarono Bassani. Qualche anno fa, in un’intervista a la Repubblica, Umberto Eco, che fu uno dei protagonisti del Gruppo ’ 63, ritornò a quel tempo delle polemiche: «Quando Sanguineti ha definito Bassani e Cassola le ' Liale del nostro tempo', Bassani ha reagito pubblicamente con vigore dando così rilievo a quella che era stata una battuta detta di passaggio. Polemizzavamo contro quello che all’epoca, con linguaggio della critica americana, veniva chiamato “il romanzo ben fatto”. Quindi in un certo senso la polemica era contro il romanzo consolatorio, indirettamente contro la letteratura commerciale» . Era stato Renato Barilli a cominciare partendo dal concetto di romanzo «ben fatto», elaborato in America; e con questo termine veniva indicato «tutto un atteggiamento di fronte al romanzo, atteggiamento fatto sostanzialmente di ortodossia e di conformismo». Barilli aveva definito i racconti di Bassani «stampe della vita di provincia per l’ovvietà e la staticità secondo cui si depositano le immagini riportate». Aveva anche imputato a Bassani una buona dose di «dolcezza sentimentale» proprio per Il giardino dei Finzi- Contini.
Bassani rispose con veemenza: «I più presi di mira siamo noi, gli scrittori della generazione di mezzo, noi che siamo usciti dalla Resistenza conservandone la tensione morale e l’impegno politico. Quelli che ci attaccano sono le anime belle della letteratura (…) Che si possa incontrarli qui a Roma nei caffè di piazza del Popolo, o in qualche ristorantuccio di via della Croce o di piazza Sforza Cesarini, tutti aggiornati anche fisicamente, nel taglio dei capelli e delle barbe, nelle giacche e nelle brache di velluto, nei camiciotti a quadrettoni, tutti così “artisti”, così “irresponsabili”, così innocuamente “arrabbiati” o gelidi, comunque sempre chic, non aiuta davvero a chiarire l’enigma sulla loro reale identità (…) Il mio parere è che dei letterati della neoavanguardia si potrà cominciare a occuparsi soltanto quando avranno prodotto qualcosa di oggettivamente accettabile».
Eppure, era stato Giorgio Manganelli, proprio una delle “firme” di punta della neoavanguardia, che aveva scritto cose illuminanti sul romanzo: «I Finzi- Contini, sdegnosi sempre di qualsiasi compromesso coi fascisti – a differenza di altri ebrei più accomodanti o indifesi o anche complici – non sembrano contrastare né eludere la persecuzione razziale che via via li isola e che li distruggerà: ma anzi, per estrema “astuzia della moralità”, la fanno propria come distintivo di straordinaria, insperata nobiltà, e se ne alimentano. Nel loro giardino di alberi eletti, che li veste come una illustre tomba, li esclude dall’esistenza ma non simula di proteggerli, essi praticano la sottile eleganza della morte. Unici tra gli ebrei perseguitati, non si lamentano, né deprecano, non accusano e non sperano: si astengono da qualsivoglia intemperanza della passione, persino da quella di “aver ragione”, e godono, con sgomentevole e asciutta passione morale, della condizione di partecipi della morte. In questo contesto ideale, i persecutori, in primo luogo i fascisti, sono il male totale proprio perché sono la storia totale; avendo escluso il punto di vista della morte, possono praticarla solo come omicidio e demenza». Dal romanzo fu poi tratto un film diretto da Vittorio De Sica. Bassani partecipò ai dialoghi ma entrò presto in contrasto con De Sica che apportava rimaneggiamenti alla storia e volle ritirare il proprio nome dagli accrediti. Peccato, perché il film vinse l’Oscar del 1972, come miglior film straniero, e aveva avuto la nomination per la migliore sceneggiatura non originale.
È obiettivamente curioso che mentre dal governo arrivano segnali inquietanti – è polemica di questi giorni l’idea del ministro degli Interni di un “censimento” dei Rom, iniziativa che ricorda quella presa dal fascismo proprio a ridosso delle leggi razziali – i ragazzi alle prese con la maturità siano invitati a riflettere su un romanzo che parla di quegli anni lontani. E del fatto che non esistono “luoghi incantati” in cui sperare di potere trovare riparo mentre intorno la follia della storia imperversa.