PHOTO
Non è un caso se l’addio di Luigi Di Maio da capo politico dei Cinquestelle ha coinciso con la débâcle di Virginia Raggi sconfessata dalla sua maggioranza al Campidoglio. Infatti assieme a Chiara Appendino, rapidamente scolorita nell’anonimato, il ministro degli Esteri e il sindaco di Roma hanno rappresentato l’apogeo del MoVimento: vincente e di governo. Oggi ne raffigurano le briciole. Il ciclone politico capace di abbattere i vecchi partiti ed espugnare la cittadella del potere; il pilastro della governabilità della legislatura senza il quale nessuna maggioranza è possibile, in appena due anni si è sgretolato contribuendo a rendere ancora più sbilenco e pencolante il sistema politico-istituzionale italiano. La parabola di Di Maio, “doroteo 4.0” nella lucida definizione di Massimiliano Panarari sulla Stampa, è al tempo stesso emblematica e raggelante. L’alfiere del Cambiamento si fa da parte (per poi riconquistare la scena?) pagando il prezzo di errori ed inesperienza. Ma è l’intera narrazione grillina ad andare in tilt. Quella che parte dalla raccolta della protesta, in questo caso in modi particolarmente ruvidi, e che si infrange sulla incapacità di trasformare la rabbia e il risentimento in adeguati strumenti per aggredire i mali endemici del Paese che quella protesta, più o meno giustificatamente, alimentano. E’ una parabola che ha contraddistinto parecchi partiti e movimenti nel dopoguerra, dall’Uomo Qualunque fino ai girotondi, al popolo viola eccetera. Con un differenza decisiva: il MoVimento ha vinto la scommessa del potere arrivando ad occupare il Palazzo. Ma è stata la sua condanna. Perché la lezione dei regimi di impianto liberaldemocratico - che il Cielo li preservi - è inesorabile: per governare, alzare la voce non è la ricetta giusta. Servono soluzioni, non anatemi. La lezione è valsa per i Cinquestelle: potrebbe essere utile alle Sardine. Ma è proprio qui il crocevia del dramma del sistema Italia. Come ha acutamente rilevato Michele Salvati sul Foglio, da Mani Pulite sono passati trent’anni «e ben nove elezioni politiche senza che la democrazia italiana sia riuscita a produrre un governo che interrompa il declino». Infatti. La rabbia ed il disincanto degli elettori non trova sbocchi: al massimo fomenta nostalgie della Prima repubblica che fu e dei suoi leader. Ma non è quella la strada per recuperare il tempo perduto. Serve uno sforzo di responsabilità e lungimiranza, che escluda il tirare a campare e la demonizzazione dell’avversario nell’eterna campagna elettorale che ci avvolge come un sudario.