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Il 7 ottobre dell'anno scorso ha segnato un momento decisivo per il Medioriente, quando Hamas ha lanciato l’operazione "Alluvione Al-Aqsa". Più di 3000 combattenti del gruppo palestinese hanno varcato le barriere che separano la Striscia di Gaza da Israele, scatenando un attacco senza precedenti. In contemporanea, un massiccio bombardamento di oltre 5000 razzi ha colpito il territorio israeliano. Gli attacchi si sono concentrati nei kibbutz, a un festival musicale vicino al confine e nelle città vicine, dove migliaia di civili sono stati sorpresi dall'incursione.
Israele, già attraversato da tensioni interne per la controversa riforma della giustizia proposta dal premier Benjamin Netanyahu, ha reagito con shock e fermezza. Il bilancio dell'attacco di Hamas è stato drammatico: oltre 1200 vittime israeliane e 250 ostaggi portati nella Striscia di Gaza. Netanyahu, nel dichiarare: «Siamo in guerra», ha dato inizio a una massiccia offensiva su Gaza, che a un anno di distanza ha provocato più di 40mila morti.
Espansione del conflitto in tutto il Medioriente
La guerra non si è limitata a Gaza, ma ha coinvolto diversi attori regionali. Iran, Libano, Siria, Iraq e persino lo Yemen si sono progressivamente ritrovati trascinati nel conflitto. Gli Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, sostenuti dall’Iran, hanno contribuito all’allargamento delle ostilità, trasformando la crisi in una vera e propria guerra regionale.
Israele, sostenuto dall'Occidente e dagli Stati Uniti, ha ricevuto rinforzi per il suo sistema di difesa Iron Dome, mentre l'Iran ha continuato a finanziare e armare le sue forze proxy. Netanyahu ha dichiarato che l'obiettivo di Israele è chiaro: eliminare la minaccia terroristica rappresentata da Hamas, Hezbollah e le milizie sciite nella regione.
Le risposte militari israeliane
Dopo l’attacco del 7 ottobre, Israele ha intensificato le sue azioni militari, colpendo Gaza e successivamente il Libano. Le operazioni israeliane hanno anche incluso una serie di assassinii mirati contro i leader delle fazioni nemiche. Tra questi, spiccano l'eliminazione del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran, e del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, abbattuto a Beirut. Inoltre, esistono rapporti non confermati sulla morte di Mohammed Deif, il comandante militare di Hamas, noto come "il fantasma di Gaza".
Tuttavia, Israele non ha ancora risolto la questione degli ostaggi nelle mani di Hamas. Durante una tregua tra il 24 novembre e l'1 dicembre, sono stati liberati 105 israeliani in cambio di 240 palestinesi, ma molti restano prigionieri. Tra questi, la giovane Noa Argamani, il cui rapimento è diventato uno dei simboli della tragedia.
Il ruolo della comunità internazionale
Nonostante gli sforzi di mediatori come Stati Uniti, Egitto e Qatar, i negoziati per una nuova tregua sembrano in fase di stallo. La tensione cresce non solo tra Israele e Hamas, ma anche all'interno di Israele stesso, dove le famiglie degli ostaggi hanno protestato contro il governo, accusando Netanyahu di averli «abbandonati».
Netanyahu, nel suo discorso all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha ribadito la sua linea dura, accusando l'ONU di antisemitismo e rifiutando qualsiasi concessione ad Hamas. «Ci attendono giorni difficili, ma vinceremo», ha affermato il premier, riecheggiando un mantra che ha ripetuto in numerose occasioni. Questa determinazione ha trovato conferma nella recente operazione "Nuovo ordine", che ha portato alla morte di Nasrallah e rappresenta solo una parte dell'ambizione di Israele di stabilire un nuovo equilibrio di potere nella regione.