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In questo momento di crisi che sta vivendo il nostro sistema penitenziario, e lo Stato stesso, in difficoltà nel prevenire e fronteggiare la protesta, non poteva mancare la lucida analisi di Tullio Padovani, penalista, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa e tra i pochissimi accademici del suo campo ad essere stato invitato a far parte della Accademia Nazionale dei Lincei.
Professore, come si deve interpretare quanto accaduto in questi giorni in oltre 27 carceri italiane, profondamente destabilizzate dalle rivolte dei detenuti? Non è un fatto nuovo, non è il primo, non sarà l’ultimo. Si tratta di un moto ondulatorio: ne abbiamo avuti in passato, ne avremo in futuro se continuiamo con questa linea politica.
Ma quali sono le cause di tutto questo? Soprattutto, quali sono le cause remote? Le situazioni scatenanti possono essere diverse, occasionate da circostanze varie; nel nostro caso certamente l’emergenza coronavirus ha funzionato da detonatore, innescando la fiammata della rivolta. Le condizioni che spiegano questi fenomeni sono più o meno sempre le stesse: c’è un incremento vistoso della popolazione carceraria e uno scadimento delle condizioni di vita nel penitenziario. Che diventa sempre più inumano e degradante.
Per una fetta della politica e della società civile invece la causa risiede nell’aumento del tasso di criminalità. Cosa pensa a tal proposito? Questi fenomeni sono indipendenti dall’andamento della criminalità: l’andamento della popolazione carceraria non segue quello della criminalità. Infatti aumenta la criminalità e scemano i detenuti. Diminuisce la criminalità, e questo è il nostro caso, ma aumentano i detenuti con ritmo incalzante. Ciò dipende dalla funzione reale che il carcere svolge nelle nostre società: non quella di provvedere alle finalità che gli vengono assegnate, come quella di rieducare. Svolge, invece, una funzione altamente simbolica: deve separare il bene dal male, i buoni dai cattivi, deve erigere un muro. L’andamento della popolazione carceraria segue l’andamento della politica: se ci sono quelli che vogliono riaffermarsi come difensori dell’indice del bene, allora si inasprisce il carcere: più detenuti e buttiamo via le chiavi.
E ciò dunque fa esplodere la situazione? Certo, come quando una estate torrida riduce i reclusi a larve umane e con la poca energia che resta loro si ribellano. Poi però c’è la vulgata diffusa per cui soggiornano in lussuosi hotel a 5 stelle. Oggi è stato il coronavirus: i detenuti si son visti togliere i colloqui e ciò, soprattutto alla popolazione più giovane, ha creato un disagio enorme. Il carcere non funziona nello stesso modo per i giovani e per i vecchi: la percezione del tempo e della condizione è molto diversa. Un giovane patisce di più il fatto di non avere rapporti coi parenti; gli anziani si preoccupano più per la loro salute, consci che il coronavirus colpisce in maniera più grave proprio loro.
Il carcere infatti non è un sistema completamente chiuso, giusto? Nel carcere entrano ed escono persone: chi ci garantisce che un agente penitenziario non sia infetto? Non dimentichiamo che la popolazione carceraria è composta di molte persone con condizioni di salute molto precarie. Quindi non c’è da meravigliarsi di quel che sta accadendo in questi giorni. Naturalmente non c’è orecchio per sentire queste cose. Ai detenuti andavano fornite informazioni precise sulla tutela della loro salute. La prima tutela della salute passa attraverso la drastica riduzione della popolazione carceraria. L’indice di sovraffollamento arriva oltre il 100 per cento. Occorre mandar fuori quelli che sono alla fine dell’esecuzione della pena, e che invece sono tenuti gelosamente dentro fino all’ultimo giorno. Persino in Iran hanno provveduto a un esodo biblico dei detenuti dalle carceri: la forza delle cose ha piegato anche un regime.
Imputa delle responsabilità alle scelte del governo e in particolare al Dap? Il problema riguarda la classe politica che governa il carcere: le iniziative che non si prendono nei confronti del carcere stesso.
Il ministro Bonafede era stato invitato da Rita Bernardini a parlare a Radio Radicale per arrivare direttamente ai detenuti ma non ha accettato l’invito. Ha scelto invece una diretta Facebook, non fruibile dai reclusi. Che ne pensa? Non interessa molto comunicare con i detenuti che sono considerati entità trascurabili, non sono nessuno. E vengono trattati come nessuno. Non dal ministro Bonafede o dal capo del Dap Basentini, ma dalle leggi di questo Paese, che ammette giuridicamente che si possa realizzare un trattamento inumano e degradante, senza che ci sia nessuno che lo faccia cessare. Si stabilisce solo l’obbligo di un risarcimento di 8 euro al giorno oppure uno sconto di pena, ma non che si ponga fine al trattamento. Invece dovrebbe cessare perché è illegale, è un reato di maltrattamenti. Noi siamo uno Stato che autorizza i maltrattamenti.
Sarebbero opportuni in questo momenti provvedimenti come amnistia e indulto?Amnistia e indulto in una situazione come questa sarebbero un atto dovuto: si tratta di sgomberare rapidamente il carcere. Bene, adottiamo almeno un indulto mirato, calcolato opportunamente ma anche matematicamente in modo da sfrondare la popolazione carceraria di tutto l’eccesso rispetto alla capienza possibile. Ma non si farà perché occorre la maggioranza dei due terzi in Parlamento.
E come risolviamo il problema del sovraffollamento? Nel nostro sistema si verifica il contrario della massima hegeliana: ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale. Da noi, invece, nell’ambito carcerario ciò che è reale è irrazionale, e ciò che è irrazionale è reale. Le carceri non possono e non debbono accogliere un solo detenuto in più rispetto al numero che assicura un trattamento umano e non degradante. Come previsto dalla normativa europea, un maiale in allevamento deve disporre di almeno 6 metri quadrati. Noi al posto del porco mettiamo il detenuto. Il detenuto per il nostro legislatore è un porco. Nelle nostre carceri più di 30000 detenuti non entrano. Se io ho 30000 posti mi devo rassegnare a questo numero. E se ne ho da mettere in più scelgo: metto fuori uno che sta alla fine della pena, o uno che ha un reato meno grave e faccio entrare l’altro. Il carcere invece è concepito come un pallone che si gonfia all’infinito, mentre è una struttura metallica nella quale vengono pigiati gli esseri umani. E poi la verifica di ciò che è umano e non degradante non può essere fatta a- posteriori ma è a- priori. Ossia, il giudice di sorveglianza deve avere lo strumento per dire ‘ questa cella non è umana’. Le verifica deve essere preventiva e coercibile.
Che giudizio dà invece del 41bis? È un circuito penale speciale che ha come obiettivo dichiarato quello di impedire i contatti con la criminalità organizzata. Sacrosanto! Ma i contenuti reali del 41 bis sono volti semplicemente a realizzare un trattamento ancora più aspro e duro. E la riprova viene da una sentenza della Corte Costituzionale alla quale si è dovuti ricorrere per far dichiarare l’incostituzionalità del divieto di cucinare in cella con il fornelletto. Divieto riconosciuto come inutilmente vessatorio e scollegato dalle finalità del 41bis.
Per porre rimedio a questo stato di illegalità, la soluzione è culturale? È la società civile che deve chiedere un cambiamento alla politica? Siamo lontani le mille miglia. Negli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, nella commissione diretta dal grande studioso e grande uomo Glauco Giostra, era stata elaborata una riforma penitenziaria certosina che aveva i caratteri dell’equilibrio, dell’efficienza, della serietà con lo spazio dedicato alle misure alternative che sono l’ossigeno per far vivere il carcere, strumento di morte dei detenuti. E poi all’ultimo il Partito Democratico non l’ha approvata per paura di perdere le elezioni. E quindi hanno perso la riforma e hanno perso le elezioni: ben gli sta, visto che hanno tradito loro stessi.