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Cosa accadrà se alla fine del percorso parlamentare, complice il voto di fiducia, sarà approvato l’emendamento governativo all’art. 83 del decreto-legge n. 18/2020 (Cura Italia)? Il processo penale sarà oscurato. Rimarrà un solo parametro per identificare l’udienza, quello oggi più incerto, sempre inseguito dal giudice, oggetto della prova di resistenza di pubblici ministeri e avvocati, spesso motivo di battibecchi con i testi: l’orario. Solo di quello avremo certezza: inizia il video collegamento. Per il resto, il palazzo di giustizia diventerà luogo evanescente, il giudice starà a casa sua o dove può o dove crede, le “persone” in caserma, ad un metro e ottanta dall’ufficiale di p.g. – che forse dovranno smentire – e che gli aggiusterà il microfono; l’avvocato a casa con l’imputato, con una certa approssimazione sul distanziamento sociale, tanto loro sono contigui.I tre giudici dunque ognuno a casa propria, forse in panciolle, che rende più sereni, a scambiarsi opinioni e convincimenti via Skype per giungere a fine serata a definire il destino di quanti hanno visto scorrere dinanzi ai loro monitor e ai quali faranno notificare, a mezzo raccomandata, il dispositivo della loro decisione ché l’imputato non ha la pec. Tutto si svolgerà nel chiuso della conferenza, senza controllo sociale ma in piattaforme organizzate da multinazionali private, che in questi anni non hanno mai dato segno di particolare cura del segreto o timore delle autorità di garanzia, la cui opinione vorremmo conoscere in queste ore. In modo ancor più specifico possiamo notare che, ai sensi del comma 12 bis, le regole per i collegamenti da remoto saranno dati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi del Ministero della giustizia, organo esterno alla giurisdizione di cui nessuno – certo non noi – conosce i criteri di riferimento; per i difensori poi nasce l’obbligo di munirsi degli strumenti telematici indicati. È garantita la riservatezza delle comunicazioni tra il difensore e l’assistito detenuto come è accaduto qualche giorno fa in un’importante sede giudiziaria, dove il giudice ha avuto modo di ascoltare ogni passaggio della conversazione. E, tanto perché se un treno passa è bene salirci, si prevede che le udienze camerali in Cassazione siano tutte non partecipate, salvo espressa richiesta del difensore che così intervenendo determina la sospensione del corso della prescrizione per il suo assistito. Ad aver tempo da perdere, ci si potrebbe soffermare su qualche facezia: se lo studio professionale o l’abitazione del difensore si trasformano in aula di udienza, quid iuris sulla presenza di oggetti astrattamente atti ad offendere quali antiche sciabole o il casco da motociclista poggiato su un ripiano? È evidente che la legge introdurrebbe modalità incompatibili con le regole del giusto processo, sopprimendo meccanismi di oralità e immediatezza che caratterizzano il contraddittorio e tutte le tecniche di esame e controesame, anche in relazione all’acquisizione della prova scientifica al dibattimento, tutte attività impossibili da svolgersi in modo compiuto con la mediazione dello strumento telematico.L’Unione delle Camere Penali Italiane ha da subito segnalato come le nuove norme rappresentino una situazione di sospensione delle garanzie difensive ed il ritorno ad un processo inquisitorio. Alla battaglia dei penalisti si unisce oggi la importante presa di posizione del Consiglio Nazionale Forense, che segnala l’incompatibilità del progetto con la nostra Costituzione. Noi inguaribili curatori dei principi costituzionali siamo certi che tutto ciò – se trasformato in legge – sarà polverizzato dalla Corte costituzionale, alla quale chiederemo sin dalle prime applicazioni che la materia sia devoluta dai giudici. Staremo a vedere. Il Dottor Abbamonte, figura di prestigio del sindacato dei magistrati, solitamente aduso a prestare attenzione alle ragioni dell’Avvocatura, questa volta, dalle colonne di questo giornale, ci comunica di ritenere irragionevole la nostra posizione, sottolineando come si tratti di norme temporanee, valevoli solo fino al 30 giugno, e iscrive i nostri timori alla cultura del retropensiero, come quella di chi sostiene che il Pentagono tenga nascosti i marziani. Pensare che fino a due mesi fa – ma forse era un’era glaciale fa – avvocatura e magistratura partecipavano alle consultazioni ministeriali con proposte comuni per il rilancio dei riti alternativi e la rigidità del vaglio dell’udienza preliminare, proprio per consentire (o meglio preservare) le regole della dialettica del dibattimento penale. È però vero, noi a volte vediamo sin troppo lontano. Proviamo allora a rispondere ad una semplice domanda: al netto del rodaggio del meccanismo, per il quale sarà necessaria almeno una settimana, perché mai dovremo accogliere come panacea contro il rischio di contagio la smaterializzazione del processo per trenta giorni (venti lavorativi)? Che senso ha questa misura, se non quello di prova generale di un meccanismo da invocare per ogni emergenza, dal carico ingestibile alla gravità dei reati di già esistenti o futuri cataloghi, magari come aiuto ad impedire che la prescrizione, quella del passato, possa definire una parte dei processi? Tutte ragioni che, ad esempio, motivano il medesimo progetto pubblicamente suggerito in questi giorni dal Dottor Gratteri. Il richiamo alla ragionevolezza si impone, evitiamo che la pandemia con il suo orrore non porti via anche la complessa intelaiatura delle regole che presidiano il rapporto Stato – cittadino a garanzia delle libertà fondamentali. Il processo è una macchina democratica, fatta di regole complesse e di tempi ragionevoli che richiede grande professionalità degli addetti, assoluto e rigoroso rispetto dei principi costituzionali del giusto processo. Fuori da questo, vi è solo uno strumento di repressione.Sono tante le misure che possono essere attuate per rendere più rapidi i tempi procedimentali e rispettare le regole di distanziamento sociale: utilizziamo la rete per lo scambio degli atti, per l’introduzione delle domande difensive, superiamo l’organizzazione burocratica che prevede marche e registri. Magari suggeriamo al Legislatore, compatibilmente con le regole dell’emergenza sanitaria, e dopo aver sanificato i palazzi e pulito i condizionatori, di consentirci di lavorare ad agosto; una decisione che dovrebbe intervenire subito, permettendo il rinvio delle cause di oggi a quel periodo. Recupereremmo tempo e lavoro, visto che sarebbe davvero un privilegio insensato predisporre di qui a poco il sistema giudiziario a due mesi di fermo per il tempo cuscinetto previsto dal CSM e le ferie agostane. Chiediamo un impegno importante al personale amministrativo, ora è in gran parte a casa con lo smart working, che per il settore penale è davvero attività residuale. Non basta? Stimoliamo la politica ad immaginare il ricorso a strumenti di pacificazione sociale che nella loro straordinarietà avrebbero la funzione innanzitutto di alleggerire la condizione di sovraffollamento e di pericolo di contagio del carcere e consentirebbero uno snellimento anche del carico giudiziario, operazione altrimenti riservata alle scelte dei capi degli Uffici giudiziari o addirittura dei singoli magistrati. Se la politica non vuole ascoltare noi, veda almeno un riferimento negli autorevolissimi appelli di chi di morale sociale se ne intende.