Il Decreto sicurezza, cavallo di battaglia dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, non può essere applicato retroattivamente. Ma per il riconoscimento della protezione umanitaria, di fatto abolita dal leader della Lega, la sola «situazione di integrazione» per lavoro, studio o rapporti sociali - di un immigrato in Italia non basta.
A deciderlo, ieri, sono state le Sezioni Unite civili della Cassazione, che rispondendo al quesito posto a maggio scorso dal collegio presieduto dal giudice Francesco Antonio Genovese hanno segnato le sorti di migliaia di ricorsi presentati da richiedenti asilo ormai da anni inseriti socialmente ed economicamente in Italia e che ambivano al rinnovo del permesso di soggiorno, diventato una chimera dopo l’avvento delle norme volute da Salvini. Che non ha perso tempo per intestarsi una vittoria: «Aveva ragione la Lega.
È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza» . Il quesito “risolto” dagli Ermellini partiva da una duplice interpretazione della norma, che aveva spaccato i giudici di Cassazione: se, infatti, a gennaio il collegio presieduto da Stefano Schirò aveva evidenziato l’irretroattività del decreto sicurezza, la stessa sezione, la prima civile, aveva cambiato orientamento con Genovese, che ha poi chiesto alle Sezioni Unite di stabilire i criteri di applicabilità delle norme.
La risposta, dunque, è arrivata ieri: la legge non incide sulle domande pendenti prima del 5 ottobre 2015, alle quali, spiegano gli Ermellini, si applicano le previsioni dei “casi speciali” - con permesso di soggiorno annuale - contenute nello stesso decreto Salvini. Ma andando oltre, in tema di protezione umanitaria i giudici hanno annunciato un nuovo principio di diritto: «l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali - scrivono gli Ermellini - comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza».
Insomma, non basta che il migrante in Italia si sia integrato, tocca anche verificare se un suo eventuale rimpatrio metta a rischio la sua incolumità. Il diritto alla protezione dipende, dunque, dalle condizioni di vulnerabilità «per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali» e non può essere riconosciuto considerando in maniera isolata e astratta il «contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza».
La decisione si basa su tre ordinanze prodotte su due sentenze provenienti dalla Corte d’Appello di Trieste e su una proveniente da Firenze, con le quali i giudici avevano, in buona sostanza, riconosciuto la protezione umanitaria a tre cittadini stranieri, due del Gambia e uno del Bangladesh. In un primo caso il riconoscimento era avvenuto in considerazione del «non perfetto stato di sicurezza» esistente in Gambia, interessato da una «incerta e difficile fase di transizione sociale da un modello governativo di stampo totalitario con uno dichiaratamente democratico», nell’altro riconoscendo il radicamento del giovane che aveva presentato richiesta nel tessuto sociale italiano, «nel quale studia e coltiva i suoi principali legami mentre in Gambia non ha rapporti familiari di rilievo» e tenuto conto della «sicura prognosi di insormontabili difficoltà di immediata reintegrazione nel Paese di origine».
Per il terzo caso, invece, i giudici avevano considerato positivamente l’inserimento nel contesto sociale e del raggiungimento dell'indipendenza economica, essendo stato assunto dal datore di lavoro a tempo pieno. Sentenze contro le quali il ministero dell’Interno aveva proposto ricorso per Cassazione. Il collegio di Genovese aveva contestato l’interpretazione data a gennaio dai colleghi, confermata ieri dalle Sezioni Unite, secondo la quale le domande precedenti il 5 ottobre vanno valutate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione. Con una sola differenza: il rilascio, da parte del Questore, di un permesso di soggiorno contrassegnato con la dicitura ' casi speciali', adattando così le certificazioni alle indicazioni della nuova norma, che, in pratica, elimina i permessi umanitari salvo alcune eccezioni.
Una contraddizione, per il giudice Genovese, secondo cui, inoltre, l’idea che la protezione umanitaria sia «oggetto di un diritto immanente e inviolabile della persona» è suscettibile «di regolazione da parte del legislatore, cui spetta il bilanciamento tra i valori in gioco, posto che altrimenti si consentirebbe l'illimitata espansione di uno dei diritti in campo, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette».
Per tutti e tre i casi, ora, la Cassazione ha disposto un nuovo processo d’appello, che tenga conto dei principi enunciati ieri, assegnando «rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale».