Pubblichiamo di seguito la prima lettera dell’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh dalla prigione di Evin, in Iran, dove è finita subito dopo l’arresto arbitrario al funerale della giovane Armita Garavand. 

È lunedì mattina. Siamo arrivati all'ufficio del procuratore di Evin alle 10 del mattino. Eravamo seduti nel cortile. Tutte le altre erano senza velo, tutte le altre fumavano, tutte le altre avevano il lobo dell'orecchio pieno di anelli. Una con il naso forato, l'altra alta come un cipresso, con una bella giacca corta dell'esercito, verde velluto, con pantaloni neri che attiravano surrettiziamente gli occhi alle caviglie. La sua testa, un tripudio di splendidi capelli ricci, scintillava nella pallida luce autunnale, con sfumature di marrone che brillavano in modo così luminoso e meraviglioso.

Quel giorno eravamo in 23, 23 donne da un lato del cortile, 20 uomini dall'altro. Eravamo stati tutti arrestati il giorno precedente. La maggior parte di noi è stata arrestata al funerale, sulla tomba. Due o tre sono stati arrestati alla moschea. La maggior parte degli arrestati alla moschea era stata rilasciata la sera stessa. Due o tre si erano rifiutati di pagare la cauzione e di prestare giuramento. Quale giuramento? Il giuramento che non avrebbero partecipato a una cerimonia del genere.

Tra gli arrestati, accanto a noi nel furgone, c'era una donna avvolta in abiti ufficiali, coperta da un pesante velo. Ci raccontava quanto si fosse sentita male per essersi presentata ogni giorno al lavoro con quell'uniforme. E di come, ora, in quel momento, si sentisse sollevata, più a suo agio.

Quando avevamo raggiunto il Paradiso di Zahra, il cimitero, ero andata all'obitorio, dove le famiglie lavano i loro morti. I parenti di Armita erano lì. Sua madre e sua sorella arrivarono poco dopo. Le persone uscivano, si presentavano, facevano conoscenza. Tra coloro che si presentarono e scambiarono i saluti c'era Manzar Zarrabi, con in mano le foto dei suoi figli (uccisi nell'abbattimento del volo 752 dall'Irgc, ndr). Lei e io uscimmo insieme, ci sedemmo in macchina e andammo verso la tomba. Mentre teneva in mano le foto dei suoi figli, la guardia di sicurezza le ha strappate da dietro, a mezz'aria. Lei si è precipitata a riprenderle. Poi ha piegato le foto e le ha rimesse nella borsa. Poi, all'improvviso, li abbiamo visti trascinare a terra una giovane donna che si trovava accanto a me. L'ho tirata indietro, come hanno fatto altri, finché non si è trovata in mezzo a noi, qualche fila più avanti. Le coprirono i capelli con un foulard e fecero il necessario per nasconderla...

Pochi istanti dopo, hanno trascinato Manzar, io mi sono fatta avanti per tirarla indietro, ci hanno trascinato entrambe a terra e ci hanno prese. Quando ci hanno fatto salire sul furgone, ci siamo rese conto che avevano arrestato altri prima di noi. Il furgone era quasi pieno. Mi sono seduta vicino alla porta e mi sono rifiutata di entrare. Hanno usato una pistola stordente che mi ha dato diverse scosse alle gambe. Non mi sono mossa. Per un motivo preciso. Potevo vedere le lacrime negli occhi della donna in piedi davanti al furgone, in attesa dell'arresto. Non avevano più spazio. Più tardi, una mia compagna di reparto mi disse che la sua amica aveva lasciato un messaggio alla sua famiglia. Aveva chiesto loro di ringraziarmi per essermi seduta davanti al furgone, dicendo: “Non c'era spazio per arrestarmi, così mi hanno liberato”. Da lì, il paradiso di Zahra, ci hanno portato al centro di detenzione di Vozara.

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Un vento, spensierato come quello dei bambini che giocano, accarezzava i nostri capelli. Io e Manzar Zarrabi, 60 e 65 anni, ci siamo rifiutate categoricamente di indossare il velo. Dopo un po’, quelle più giovani di noi, tra l'entrata e l'uscita dall'ufficio del procuratore, indossavano con esitazione un foulard per essere forse liberate. Gli uomini dell'ufficio del procuratore abbandonavano le loro postazioni, uscivano uno dopo l'altro e ci guardavano con occhi spalancati. Avevamo fatto la cosa più semplice del mondo. Eravamo sedute lì per caso, ma era come se i signori dell'ufficio del procuratore stessero trattenendo il respiro. Ci guardavano chiedendosi cosa fosse successo.

Ogni ora circa, ammanettavano Manzar e me l'una all'altra e ci dicevano che ci avrebbero riportato al centro di detenzione di Vozara. Poi, dopo circa mezz'ora, ci dicevano di scendere dal furgone, di indossare il foulard e di tornare nell'ufficio del procuratore per il controinterrogatorio. Ci siamo rifiutate e non siamo entrate. Lo fecero ancora. In una di queste occasioni, mentre ci stavano riportando nel furgone, dissi a uno dei funzionari di dire al signor Qenaatkar che avrei sporto denuncia contro di lui, poiché non aveva l'autorità per impedire che fossi perseguita perché non portavo il velo. In preda al nostro profondo dolore, al lutto per la perdita di Armita, io che per anni mi ero rifiutata di entrare in un tribunale, mi ritrovai a insistere per comparire davanti al procuratore di Evin, senza veli. Alcune di noi, le donne accusate, avevano trascorso ore nel cortile, femminilizzando di fatto il cortile del procuratore di Evin, senza rendersi conto di ciò che avevamo fatto. Avevamo mandato in convulsione Evin, così totalmente virile e di massima sicurezza, con i nostri capelli...