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È tutta colpa dei salmoni. O almeno, è proprio a un tagliere di un banco al mercato di Xinfadi, il più importante di Pechino, dove il salmone veniva affettato per essere venduto che riportavano le tracce del nuovo contagio – un risalire la corrente del virus, come ormai abbiamo imparato tutti che accade da quando viene rilevato un paziente, su su, ai suoi parenti, ai suoi contatti, ai suoi luoghi.
Proprio come fanno i salmoni. È lì tutto portava, al salmone del mercato di Xinfadi. Decine di lavoratori del mercato sono risultati positivi, e allora le autorità sono corse subito ai ripari. Il mercato è stato immediatamente chiuso così come le scuole e gli asili nei paraggi. Serrande abbassate anche in altri sei mercati all'ingrosso della città. È stato inoltre imposto il lockdown a undici quartieri che si trovano nei pressi di Xinfadi. Sono decine e decine i casi di contagio – per lo più asintomatici.
I due aeroporti di Pechino hanno cancellato i voli. Dal 13 giugno sono più di 356mila i test fatti sulla popolazione a un ritmo serrato e continuo, con lunghe e estenuanti code davanti ai numerosi laboratori messi a punto, anche mobili. Secondo le autorità municipali, il potenziale è di 400mila test al giorno grazie a 100mila operatori sanitari in campo.
«In base alla curva epidemiologica abbiamo individuato i casi al loro stadio iniziale. Ora il trend è ancora in ascesa e non è escluso un ulteriore incremento di contagi» – ha detto Pang Xinghuo, vicedirettrice del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie di Pechino. Si ricomincia. È un incubo.
È abbastanza improbabile che il salmone norvegese importato e affettato a Xinfadi sia il responsabile di questo rigurgito di contagio, nessuno sa se la si può chiamare una “seconda ondata” visto che dalla prima in realtà non siamo mai usciti – dovrebbe essere accaduto durante la lavorazione, ma come avrebbe retto alle temperature del surgelamento?
Ma in una furia iconoclasta, i salmoni norvegesi sono scomparsi a Pechino: via dagli scaffali, accumulati e distrutti. È sulla parola “importazione” che i giornali cinesi calcano la mano: da quando hanno riaperto i voli e i transiti, le autorità raccomandano particolare attenzione a qualunque persona o cosa “in ingresso”, come se ormai solo da fuori potesse tornare il Male. Loro, i cinesi, l’hanno estirpato. È l’effetto di una reazione a “rovesciare lo sguardo” che sembra ora prevalga: è vero che fin dall’inizio mandarono avanti un funzionario a sostenere che il virus probabilmente era stato “importato” in Cina da un nucleo di soldati americani in esercitazione forse nell’ottobre 2019 – ma sembrava un “botta e risposta” con Trump che invece non ha mai smesso di definire “cinese” il virus, sfuggito magari a un laboratorio segreto di sperimentazioni.
Ma ora la cosa va prendendo la mano: di recente, in Cina si è detto e scritto che l’epidemia ha avuto origine in Lombardia e dalla Lombardia è stato portato a Wuhan. I cinesi, insomma, non ci stanno a passare per gli untori del mondo.
Gli è che nei confronti della Cina, nel corso della pandemia, si è avuto un atteggiamento schizofrenico, oscillante tra due estremi: all’inizio, sono stati vituperati, per le abitudini alimentari, per la caotica urbanizzazione a scapito degli ambienti ecologici fino ai deliri complottisti di chi parlava di un contagio voluto per iolire il mondo occidentale.
Soprattutto, furono criticati per il ritardo con cui avevano comunicato all’Organizzazione mondiale della sanità e al mondo che era scoppiato il contagio. Un ritardo controllato, per non incrinare l’immagine della Cina nel mondo – proprio nel momento storico in cui, attraverso quella straordinaria e controversa impresa titanica che è la Nuova via della seta, si affermavano come “attori di prima grandezza” nello scenario geopolitico mondiale. Ma un ritardo colpevole, gravemente colpevole.
E poi, subito dopo, l’ammirazione: quel pugno di ferro del lockdown, quell’ospedale costruito in quattro e quattr’otto, milioni di persone che si sottoponevano disciplinatamente alle direttive del partito – e tutto sembrava funzionare. Eccolo il “modello cinese”, sono loro “i maestri del lockdown”. E innegabilmente sono diventati “attraenti”: ovunque nel mondo il lockdown è stato imposto, era ai cinesi che si guardava – persino l’ospedale di Fontana e Gallera, costruito in tempi cinesi ai cinesi si rifaceva. Con effetti grotteschi e drammatici insieme.
In Cina ha funzionato la risposta al contagio – perché in Cina c’è lo Stato. All’ingrosso, è stata questa la “morale delle cose” in Italia in larghe fette di opinione comune, ma non solo. Il liberismo ci ha lasciati nudi di fronte all’epidemia, smantellando la sanità e il welfare assistenziale – dobbiamo ora privilegiare la “cosa pubblica”.
Dimenticando che di “cosa pubblica” abbiamo vissuto per quasi quarant’anni – di ospedali mai completati, di costosi macchinari abbandonati nei sottoscala, di raccordi autostradali che non combaciavano e venivano abbandonati nel nulla, di scuole che si sbriciolavano al primo scossone di terra – quelli del potere democristiano e della co- gestione comunista, anche stando all’opposizione o al governo di regioni.
Ora poi che arriveranno i soldi europei – il discorso si fa più stringente: occorre una forte “cabina di regia” che indirizzi e monitori i flussi di finanziamento, la sua distribuzione e i processi di realizzazione dei progetti. Insomma, la voglia di centralizzazione si fa forte, e d’altronde se qualcosa davvero non ha funzionato – con esiti drammatici e, chissà, anche giudiziari – è stato proprio il rapporto tra Stato e regioni, il decentramento.
In sostanza, i maestri del lockdown, i cinesi, avevano anche messo in piedi un “sistema” invidiabile – arricchitevi, come disse loro Deng Xiao Ping, ma il mercato rimane sotto il tallone del Partito. Come ha detto orgogliosamente Xi: «È il socialismo alla cinese».
E poi, un salmone occidentale manda tutto in crisi.