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A due settimane dalla pubblicazione del rapporto con il quale l’Ocse critica i giudici italiani per le troppe assoluzioni in materia di corruzione internazionale, i giudici di Milano alzano la voce. E lo fanno rispendo al mittente le accuse dell’Organizzazione per la cooperazione internazionale e lo sviluppo economico, che aveva provato a “spiegare” ai magistrati italiani come fare il proprio lavoro. «I giudici milanesi non hanno bisogno di “formazione” per valutare correttamente le prove, come invece consigliato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo in un documento censurabile, oltre che frutto di una non corretta percezione della realtà giurisdizionale italiana», ha affermato - come riportato dal Corriere della Sera - il presidente della Corte d’Appello del distretto di Milano, Giuseppe Ondei.
Parole pronunciate nel corso di un seminario della formazione decentrata della Scuola Superiore della Magistratura sulla riforma Cartabia e condivise dal presidente vicario del Tribunale, Fabio Roia, che anticipano una nota congiunta sul punto che verrà diramata nei prossimi giorni.
Nel suo controverso documento, l’Ocse aveva bacchettato i giudici soprattutto per il procedimento contro Eni per la presunta tangente da oltre un miliardo nell’affare Opl245, fascicolo in mano al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e al pm Sergio Spadaro ( ora alla procura europea) e naufragato oltre un anno fa con una sentenza che ha, di fatto, demolito il lavoro dei due magistrati. Quella tangente, secondo i giudici del Tribunale di Milano, non è infatti mai stata provata. Ma c’è di più: molte delle prove portate a processo sono risultate “manipolate”, mentre altre, ritenute estremamente utili alla difesa, sono state tenute nel cassetto, tanto da costare a De Pasquale e Spadaro una richiesta di rinvio a giudizio a Brescia.
Secondo l’Ocse l’errore dei giudici starebbe nel metodo di valutazione delle prove: le prove fattuali, infatti, non sarebbero state considerate «contemporaneamente» nella loro totalità, valutando «ciascun elemento di prova solo singolarmente». Parole che ricalcano in maniera quasi pedissequa le considerazioni fatte mesi fa da De Pasquale nel proprio appello contro le assoluzioni, appello lasciato cadere dalla procura generale, che ha espresso giudizi severi sul lavoro dell’accusa.
L’Ocse, di fatto, incappa nello stesso errore attribuito ai giudici: un giudizio sul loro operato senza considerare la totalità dei fatti e degli atti. Il punto di vista delle difese e l’enorme mole di atti che ha spinto il collegio a pronunciare una sentenza di assoluzione sono, infatti, rimasti fuori dal lavoro di ricognizione dell’organizzazione, che ha agito, principalmente, per difendere i due magistrati dell’accusa. Un lavoro al quale si associa una lettera, a titolo personale, del presidente del gruppo di lavoro Ocse, Drago Kos, in difesa delle due toghe, definiti «esempi luminosi».
Quella lettera è ora stata depositata a Brescia, dove a gennaio il gup deciderà se rinviare a giudizio i due magistrati, accusati di rifiuto d’atti d’ufficio. Dopo aver criticato il lavoro della giustizia italiana - suscitando l’indignazione di politica e toghe, dopo un primo commento del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che rispondendo al Foglio aveva minimizzato la questione -, l’Ocse ha raccomandato formalmente al nostro Paese di provvedere di più alla «formazione» dei giudici in tema di tangenti all’estero.
Una critica che Ondei non ha gradito, ricordando all’Organizzazione come funziona - e a cosa serve - la giustizia. «I giudici del distretto di Milano - ha spiegato il presidente della Corte d’Appello - sono sicuro continueranno a non orientare le decisioni in base ai risultati da raggiungere», ma «ad amministrare giustizia nel pieno rispetto dei principi cardine del contraddittorio, della presunzione di non colpevolezza, della condanna dell’imputato solo se ritenuto colpevole oltre ogni ragionevole dubbio». Una lezione che, si spera, anche l’Ocse apprenderà, evitando in futuro di incappare nel più superficiale populismo penale.