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Gennaio 2016 – A Dyiarbakir, la capitale della regione curda del sudest della Turchia, l’antico quartiere di Sur all’interno delle poderose mura millenarie, è sotto coprifuoco da tre mesi. Dapprima l’intero quartiere, poi la metà più popolosa, circa 120mila abitanti. Si dice “coprifuoco”, ma si dovrebbe dire “stato d’assedio”. Nel quartiere non si entra e se si vuole uscire, poi non si rientra: si abbandona semplicemente la propria abitazione, senza portarsi nulla dietro. Ci sono continui bombardamenti, notte e giorno, senza tregua. Proprio quei giorni di fine gennaio vedono il massimo dell’attacco della milizia e della polizia turche contro il quartiere curdo. Sur, certo, non è il solo agglomerato a subire questo attacco. Lo stesso avviene nelle cittadine della stessa provincia, prima fra tutte Cizre. Anche lì il bombardamento è ininterrotto: piccoli tank, bazooka, mine e quant’altro. Il motivo: stanare i fighters vicini al PKK ( organizzazione messa al bando anche dalle leggi internazionali) ed eliminarli. Ma, agendo in questo modo, popolazioni di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini pagano per poche centinaia di fighters. In questo contesto, ogni diritto è negato: scuole ed ospedali chiusi o addirittura distrutti; approvvigionamenti di cibo ed acqua impossibili; divieto persino alle ambulanze di entrare per soccorrere feriti o persone gravemente malate; persino dare degna sepoltura ai propri figli è impossibile perché la milizia e il governatore non intendono restituire i cadaveri dei figli. L’attacco a Sur era iniziato a fine novembre; nelle altre città l’agosto precedente, quando il partito curdo HPD aveva raccolto alle elezioni di giugno un numero di parlamentari tale da bloccare le aspirazioni di Erdogan di riforma costituzionale in senso autoritario e presidenzialista costringendolo a riconoscere ai curdi una quota di autonomia amministrativa, se non di indipendenza, così come avevano previsto gli “accordi di Dolmabage” stipulati fra governo e rappresentanti curdi nel gennaio precedente. Da qui l’esigenza di Erdogan non solo di farla pagare a chi tentava di sbarrargli il passo, ma anche di scompaginare quelle città che avevano espresso una stragrande maggioranza a favore dell’HPD.
6 Marzo 2016 – Dopo 106 giorni il governo toglie il coprifuoco al quartiere di Sur e, pian piano, anche alle altre città. Ma l’accesso ai quartieri bombardati è ancora molto limitato e a chi aveva lasciato la propria casa non è consentito rientrare. Il panorama che si scorge è desolante, interi blocchi di edifici distrutti, dovunque cumuli di macerie, le poche case rimaste in piedi sono sventrate e prive di porte e finestre: praticamente impossibile rientrarvi. La vita ricomincerà a fluire – se ricomincerà – solo nelle piazze principali, attorno ai bazaar che tentano di riaprire, attorno alle moschee. Continua la politica del governo, già iniziata durante il coprifuoco, di offrire una somma di denaro ridicola ( poche migliaia di lire turche) perché gli abitanti rinuncino a rientrare e a richiedere indennizzi per i danni causati dal coprifuoco. Gli abitanti, nella stragrande maggioranza, rifiutano di accettare. Con il passar dei mesi, iniziano ad agire contro il governo in sede civile e amministrativa richiedendo i danni. La municipalità di Dyiarbakir decide di aiutare i cittadini nelle loro azioni e rivendicazioni.
13 marzo 2016 – Un decreto ( per questa aree “di guerra” non servono le leggi, bastano i decreti del governo) stabilisce l’esproprio e la nazionalizzazione di tutte le aree private ricomprese nelle zone già sottoposte a coprifuoco. Per di più, la futura ricostruzione non sarà di competenza delle municipalità ( e dunque almeno in parte rimessa all’iniziativa dei proprietari) ma sarà di esclusiva competenza del ministero degli Interni e della Difesa: vale a dire, delle stesse forze che hanno causato le distruzioni. Facile intuire come il quartiere ricostruito sarà diverso da quello distrutto: dove c’erano vicoli e casette addossate nel tipico stile mediorientale, si disegneranno vaste vie per consentire in un futuro di entrare anche coi tank e di controllare meglio il territorio e le case saranno piccoli condomini residenziali lontani mille miglia dallo stile tipico della zona. Unico limite, si spera, potrà essere posto all’altezza degli edifici, così da non rovinare il filo delle mura di basalto nero, patrimonio UNESCO: ma non è detto neppur questo!
Novembre 2016 – I sindaci di Diyarbakir ( ogni città ne ha due, un uomo e una donna, per parità di genere) vengono arrestati per “fiancheggiamento del PKK”, così come altri 28 sindaci della provincia e al loro posto si insedia un “custodian” di nomina governativa.
Nella zona del coprifuoco però non si ricostruisce ancora nulla: si spianano le macerie definendo vaste aree vuote, si restaurano le moschee bombardate ( ma non la chiesa ortodossa e quella armeno, da molti mesi praticamente distrutte), in pratica non si può ancora andare più in là delle prime due vie parallele all’asse centrale, per motivi di sicurezza connesse ai crolli. Di fatto, è ancora una città dominata da militari e polizia. La previsione è che, intanto che si delineano i piani di ricostruzione e si da inizio alle opere scorreranno ancora molti mesi. Il governo insiste perché gli abitanti accettino le misere somme di indennizzo e se ne vadano altrove. Quasi tutti rifiutano. «Oggi rifiutano, ma la prospettiva non è rosea», ci dice con preveggenza un funzionario all’urbanistica del comune, «quando il governo avrà ricostruito, magari fra anni, le case secondo i propri criteri, porrà gli abitanti di fronte ad una scelta impossibile: cedere i propri diritti sul suolo per, mettiamo, 50mila lire turche ( somma insignificante) oppure comprare un appartamento ricostruito dal governo per 250mila lire, somma inaccessibile per la gran parte degli abitanti».
Ecco dunque come il governo turco sta tentando di disperdere nuclei importanti del popolo curdo, negandogli il diritto all’abitazione: prima con le bombe e oggi con una astuta politica urbanistica ed amministrativa. Amnesty International, proprio in questi giorni, ha denunciato la esistenza di 500.000 sfollati curdi interni, di cui 25.000 dal solo quartiere di Sur di Diyarbakir. Si può pensare che i numeri pecchino ancora per difetto, poiché molti non intendono neppure di essere sfollati dalla loro città o dal loro quartiere e vogliono invece rientrare nella propria abitazione o arrivare a ricostruirsela. Ma siamo comunque di fronte ad un esodo di massa.
Anche in occidente ne sappiamo qualcosa di sfollamenti e ricostruzioni, basti ricordare la ricostruzione del centro di Parigi dopo la Comune del 1871, per espellerne gli abitanti proletari e rivoltosi e i nuovi viali che non consentissero le barricate. Anche volendo rimanere al primo obbiettivo che si è posto il governo turco, quello cioè di disperdere la compattezza dei collegi che danno il loro consenso all’HDP, torna alla memoria quanto fece la Thatcher per ridisegnare i collegi della Grande Londra in senso più favorevole ai conservatori. Ma qui la memoria turca non deve andare così lontano nel tempo o nello spazio: basta risalire al decreto dei Giovani Turchi del 23 maggio 1915 che prevedeva, proprio come quello del marzo 2016, l’esproprio di tutti i beni immobili ( ma anche dei depositi bancari) degli armeni. E, come dimostra l’accurata ricerca dello storico Marcello Flores, fu questo l’inizio della diaspora e dell’uccisione della popolazione armena, che verrà sancito da un successivo decreto del 27 maggio 1915: quattro giorni dopo quello dell’esproprio. Avverrà per i curdi quanto avvenne un secolo prima per gli armeni? Difficile oggi immaginare le colonne di curdi in fuga a piedi fino al deserto siriano, fino a Deir az Zor, al confine con l’odierno Iraq, con bambini massacrati, donne stuprate, vecchi che si trascinavano, senza più maschi adulti, tutti uccisi, decapitati dagli stessi curdi, longa manus dei turchi in questa strage innominabile.
La dispersione del popolo curdo, già cominciata, la si tenta con metodi meno primitivi che non quella del popolo armeno. Ma certo il popolo curdo è sotto l’attacco del governo turco da ormai almeno tre decenni: si cerca di cancellarne l’identità ed oggi anche di cacciarli dai loro territori.
Quanto la Turchia sta tentando a livello internazionale va, purtroppo, nella stessa direzione e nessuno pare osare porgli un limite. Essa vuole sedere alle trattative per l’assetto della Siria, è voluta intervenire nella riconquista di Mossul in Iraq, a suo tempo si è opposta a che le forze anti Abbash venissero fornite di armi dall’occidente: sempre e soprattutto perché nei paesi circonvicini il popolo curdo non acquistasse potere ed autonomia, così da appoggiare eventualmente i curdi interni alla Turchia nella loro richiesta di indipendenza.