È abbastanza paradossale la fotografia che tanti scattano al governo - sempre in virtù delle famigerate intercettazioni, è ovvio - nel pieno della bufera seguita alle dimissioni del ministro Federica Guidi. Da un lato, infatti, viene addebitata a Matteo Renzi la voglia di voler comandare su tutto e su tutti, azzerando l’autonomia dei singoli titolari di dicastero, rendendo i Consigli dei ministri una messa cantata o giù di lì. Dall’altro, al contrario, quello stesso consesso viene raffigurato come un campo d’Agramante, un catino di veleni, una palestra di sgambetti. Dossier intimidatori compresi. Insomma per un verso, un premier col profilo del dittatore; per un altro, un capo irresoluto preda di cordate di stampo affaristico. Naturalmente se è giusta l’una, risulta sgranata fino all’inintelligibità l’altra. E allora? Lo scontro continuaAllora, più concretamente, siamo di fronte all’ennesima puntata dello scontro che va in scena fin dal momento in cui Renzi si è insediato a palazzo Chigi. E che contrappone da un lato i fautori di una premiership che la faccia finita con i minuetti e gli equilibrismi del passato per dare una scossa in profondità al Paese; e dall’altro i sostenitori di un meccanismo più collegiale, più vicino al tradizionale schema di mediazione tra interessi contrapposti con cui in Italia è stato gestito il potere per cinquant’anni e passa. Dispute filosofiche, per adddetti al Palazzo? Tutt’altro: uno scontro all’ultimo sangue (politico) che non prevede pareggi. Come in altri passaggi già accaduto, il punto di deflagrazione riguarda i rapporti tra politica e magistratura. L’affare Guidi e i suoi cascami, a ben vedere, non sono nient’altro che questo: la riviviscenza di un conflitto che va avanti dall’inizio degli anni ‘90.Lo snodoSolo che stavolta c’è uno snodo ineludibile: la riforma costituzionale e quella elettorale, con un referendum a ottobre formalmente connesso con il nuovo Senato ma che in realtà riguarda il futuro stesso del capo del governo, del suo esecutivo e, forse, della legislatura. Con sullo sfondo appunto il braccio di ferro tra politici e toghe, con le seconde che, da un ripiegamento successivo ad una sconfitta da parte del premier, risulterebbero inevitabilmente rafforzate.E’ perciò inforcando occhiali con queste lenti che bisogna leggere i fatti.Due, in particolare. Il primo. L’altro ieri il presidente del Consiglio è salito al Quirinale per affrontare la questione della sostituzione del ministro dello Sviluppo. Non un passaggio di routine. Infatti la scelta del successore della Guidi - un tecnico o un politico; di una “cordata” o dell’altra - rappresenterà un segnale chiaro di come Renzi intende procedere. Ma anche di come il capo dello Stato pensa di regolarsi. Questo perché se lo scontro tra Renzi ed i magistrati dovesse proseguire o addirittura intensificarsi fino a ridosso dell’apertura delle urne referendarie di autunno, il Colle non potrebbe rimanere spettatore silenzioso. In assenza di elementi specifici, è logico supporre che nel colloquio a quattr’occhi Mattarella abbia invitato alla cautela il premier. Altrettanto logico, tuttavia, immaginare che la lunga esperienza politica dell’inquilino del Colle lo renda più che mai consapevole della posta (e dei rischi) in palio.Grillini e destraIl secondo elemento è più strettamente legato agli atteggiamenti delle forze politiche. La decisione dei Cinquestelle di votare il 19 prossimo, in occasione del vaglio delle mozioni di sfiducia al Senato, anche i documenti dello stesso tenore presentati dal centrodestra conferma la saldatura di uno schieramento anti-Renzi politicamente magmatico e allo stato del tutto privo di un baricentro che lo possa trasformare in alleanza ma che tuttavia, sotto il profilo numerico, è potenzialmente maggioritario. Si spiegano anche così sia l’offensiva grillina di queste ore con toni sempre più accesi e che, non a caso, tira in ballo proprio Mattarella; e la replica altrettanto dura di Renzi, determinato a portare in tribunale (sic!) Grillo e i suoi parlamentari, “e speriamo che in quel momento - avverte - rinuncino all’immunità parlamentare e si facciano processare”.C’è però un’altra variabile, nient’affatto secondaria, da considerare. Concerne l’opposizione interna del Pd. Pierluigi Bersani va all’attacco e reclama “collegialità”, ed è il refrein già espresso nella Direzione. Tampa Rossa “ha scoperchiato il vaso di Pandora; si prendono decisioni non lineari, nottetempo, senza rispettare i ruoli istituzionali”. Già. Ma che succederà se lo scontro con le toghe va avanti? Su quale sponda la minoranza si attesterà? E al momento del voto referendario, potranno reggere un No o una astensione? Si tratta di un passaggio delicatissimo. Però ineludibile.