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Ho sempre considerato lo sci quella cosa per cui ci si arrampica in cima a una montagna solo per poterne scendere, e il calcio quella cosa in cui ci sono 22 uomini che corrono appresso a una palla. Il calcio resta per me la più assurda delle passioni umane, ma confesso che ognintantonhomil dubbio che si tratti di una lacuna. Con la passione che ho per la politica mi sfuggono le metafore ardite, CR7 ha smesso di essere una sigla astrusa quando ho scoperto che si tratta del proprietario dei miei alberghi preferiti in Portogallo, e se non ho mai corso il rischio di Berlusconi al suo primo G7 ( no, l’Uruguay round non è un torneo calcistico sudamericano) son costretta a voltar pagina, cambiare bar e marciapiede o, peggio, ammutolire quando sento nominare cose e persone che riguardano quella roba lì.
L’idea di Orwell che il calcio è una prosecuzione della guerra con altri mezzi - e dunque lo è anche della politica- mi affligge: che ci sia un pezzo di mondo che sfugge alla mia capacità e volontà di comprensione?
Non è colpa mia. Ho avuto un trauma infantile: all’età di 12 anni venni portata da mio padre che non ne era frequentatore abituale allo stadio, per il semplice motivo che gli erano stati regalati due biglietti in Tribuna d’Onore all’Olimpico, addirittura per una partita della Roma. Io avevo con me un libro da leggere ( sorvolo sul titolo che è meglio: lettura inadatta a una dodicenne, infatti non capivo un accidenti).
E a un certo punto, mentre sentivo che lo stadio si stava infervorando, persi la concentrazione, sollevai gli occhi dal libro, guardai lo sterminato campo verde, vidi una palla che veniva malmenata verso la porta e urlai con quanto fiato avevo in gola “goal!”. Non era un goal, ma il peggio fu che il signore anzianotto, bruttarello e con la gobba seduto giusto davanti a noi si voltò, mi guardò in tralice dagli occhiali a forma di schermo da televisore e sibilò “porta male!”. Era Giulio Andreotti, per fortuna: mio padre mi trascinò via, consenziente, nell’intervallo del primo tempo. E io decisi all’istante che di calcio non avrei più voluto saperne nulla.
Una soglia di ignoranza consapevole deve essere consentita, a qualunque umano. Io ho sentito la mia vocazione prestissimo: avrei ignorato il calcio, e cercato strenuamente di conoscere tutto quel che potevo di tutto il resto dello scibile umano. Non sono sola. Quando c’è il derby, bellissime conversazioni con gli unici tre tassisti romani che si disinteressano del pallone come me ( e che sono dunque anche gli unici tre al lavoro). Selezione rapidissima al primo incontro, basta dire “non mi piace il calcio” ( una valida alternativa all’osservare se il convenuto ha i calzini lunghi o corti). Domeniche pomeriggio libere, anche da frastuoni, e così pure i mercoledì i lunedì etc. Quando ci sono i mondiali, andare negli Stati Uniti ( l’ho fatto), o farsi chessò un giro dell’Islanda in barca ( l’ho fatto).
Tutto questo per dire che chi sostiene che “di calcio le donne non capiscono nulla” è delle donne che non ha mai capito un accidenti. E forse neanche di calcio: gente che crede ancora che si tratti di tattiche e strategie, e non di correre appresso a un pallone per tirar calci.