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«La storia del mondo si è sviluppata sul prefisso “ri”. Kierkegaard ha scritto un libro intitolato “La ripresa”, nel quale dice che tutto quello che avviene è scandito da un ri-guardare, un ri-pensare, un ri-tornare, un rispettare. La profondità dell’uomo viene da questa sua capacità di utilizzare il “ri”. E Kierkegaard dice che un uomo che riparte, si ri-prende, ri-torna su stesso ha potenza, altrimenti resta prigioniero della vita normale». Inizia così la nostra chiacchierata con il fondatore del Censis, il professor Giuseppe De Rita.
Professore, il non utilizzare questo prefisso significa che la nostra società non ha più tempo?
Non si dà tempo, non è che non ha tempo. Corre avanti. Tutti corrono avanti. Il problema principale dell’attuale quadro politico è proprio questo: va avanti e basta. C’è stata la discontinuità delle elezioni dello scorso 4 marzo e chi ha vinto ritiene che la discontinuità vada portata avanti, corre, fino a impiccarsi alla discontinuità. E quindi deve continuare a parlare e a dichiarare, senza mai fermarsi a riflettere neanche per un attimo, magari su quelle che sono state le promesse elettorali. Si crea così un’inerzia che porta avanti e che si può superare solo se si è in grado di ri- partire, mi passi il paragone calcistico.
A proposito di verbi poco frequentati di questi tempi che cominciano in “ri”. In questi giorni si riflette a Catania, nell’ambito del XXXIV Congresso forense, sul rafforzamento dell’autonomia e dell’indipendenza della giurisdizione e dell’avvocatura all’interno della Costituzione.
È una bella sfida che va inquadrata dal punto di vista istituzionale e culturale. Non sarà semplice perché i poteri istituzionali non ne vogliono altri nel loro recinto. Le faccio un esempio che risale alla fine degli anni 60, quando il Csm, vicepresidente Alfredo Amatucci affiancato da Saia e Beria di Argentine, decise di istituire la commissione riforma che era un modo non solo di fare autogoverno dei magistrati, ma anche di partecipare al dibattito politico. Non gliel’hanno mai perdonata, oggi il Csm ha riacquistato potere perché si è dedicato esclusivamente alla sua funzione primaria. Lì ebbe inizio la sottile lotta tra politici e magistrati, con il rifiuto di inserire nel tempo i magistrati nel potere istituzionale. Temo che le stesse resistenze ci possano essere per l’avvocatura.
È anche una sfida culturale?
Ogni cittadino che ha rapporti con un avvocato è tendenzialmente contento della professionalità, ma gli avvocati come categoria hanno una cattiva stampa, accompagnata ancora da un retaggio “manzoniano”. Si ritiene, cioè, che la funzione dell’avvocato sia professionalmente corretta, però non se ne riconosce il ruolo istituzionale. Mi spiego meglio. Un istituto, un ente, negli anni può conquistare un indiscutibile livello professionale, ma la stima pubblica giunge quando si fa un ulteriore scatto in avanti: si diventa istituzione che parla al Paese, che pubblica rapporti, studi ed è protagonista nel dibattito. La professionalità, quindi, che diventa anche dimensione istituzionale viene riconosciuta da tutti. Le posso fare l’esempio di Paolo Baratta che è riuscito a far arrivare la Biennale di Venezia a una dimensione istituzionale.
E per l’avvocatura come si traduce tutto questo?
Gli avvocati oggi dovrebbero essere capaci di uno sforzo simile: fare del loro livello professionale, del loro impegno qualcosa che tenda a essere istituzione. Già l’idea di avere un quotidiano come Il Dubbio, organo dell’avvocatura, va nella direzione giusta di avvicinarsi a una funzione istituzionale. I magistrati con gli anni hanno perso questa funzione istituzionale, hanno anche un riconoscimento del ruolo in Costituzione, ma questo è legato a una vecchia idea della magistratura improntata alla divisione dei poteri che risale a Montesquieu. Oggi, invece, bisogna diventare intimamente istituzionali per ottenere un riconoscimento esterno L’avvocatura deve proseguire su questa strada organizzando una grande convention annuale su problemi collettivi veri, realizzare delle ricerche per poter affermare che oltre a essere dei seri professionisti si ha anche il senso delle istituzioni. Oggi bisogna diventare intimamente istituzionali per ottenere un riconoscimento esterno.
A proposito di istituzioni, torniamo alla politica. Siamo molto lontani dalla famosa frase di Einaudi “conoscere per deliberare”. Perché i politici non si danno tempo?
La frase di Einaudi è dei primi del ‘ 900 e parlava di una società più lenta in cui tecnologia, finanza e informazione avevano tempi diversi da quelli attuali. Basti pensare che in alcuni posti i giornali arrivavano il giorno dopo, mentre oggi tutti sono informati in tempo reale. Tutto è immediato e le reazioni devono essere altrettanto immediate, ma la reazione non è una riflessione o una ripartenza. La reazione è un meccanismo in cui vince l’emozione e contribuisce ad aumentare la carica emotiva di una società. Secondo qualche storico anche la prima guerra mondiale sarebbe scoppiata perché non si è passati attraverso i tempi della diplomazia, ma dai telegrammi. Gli Stati cioè, si sono parlati attraverso annunci telegrafici senza utilizzare la diplomazia, ed è perciò scoppiato il conflitto.
I telegrammi sono stati sostituiti dai social, ma i meccanismi attuali sono simili. Nella prima Repubblica gli esponenti democristiani erano, invece, dei geni della mediazione, dei colloqui, delle riflessioni. Oggi ci sono i campioni della disintermediazione che sono impantanati nelle reazioni. Un fenomeno che durante il pontificato di Wojtyla ha colpito anche la Chiesa.
Quando la politica è passata alla disintermediazione?
Con Bettino Craxi. Molti mi accusano di essere un craxiano, ma non è così: sono un cattolico e un moroteo convinto. Negli anni 80 Craxi mi disse: “Non possiamo aspettare i democristiani per decidere, loro mediano su tutto, dobbiamo invece essere decisionisti. Occorre verticalizzare, con la conseguente personalizzazione che comporta la mediatizzazione. Per fare tutto questo occorrono i soldi e io non li ho”. Poi è arrivato Berlusconi che ha seguito la stessa logica e lui i soldi li aveva. Renzi è stato l’ultimo della serie.
E la Dc come reagì a Craxi?
Male. Ciriaco De Mita non ebbe la capacità di imporre la mediazione, il Pci di Berlinguer sollevò la “questione morale” e Craxi venne etichettato come una sorta di delinquente.
E così siamo arrivati al quadro politico attuale.
Ma oggi non ci sono più le categorie dalle quali partiva Craxi: no alla mediazione, sì al decisionismo. C’è un’altra cosa. In un recente editoriale sul Corriere della Sera ho manifestato il mio sconcerto di fronte al fatto di non avere un quadro politico- economico chiaro per i prossimi dodici mesi. Si passa dai festeggiamenti sotto Palazzo Chigi ai ripensamenti nel volgere di poche ore.
In questo i social giocano un ruolo fondamentale?
Il fatto di essere più veloci, però, non impone di non pensare. Non ci si può limitare agli algoritmi con tre o quattro variabili da sintetizzare. La sintesi scaturisce dalla discussione, dalla dialettica, dalla dinamica sociale. Una società complessa ha bisogno di mediazione, non può essere governata in modo semplice con la disintermediazione o con la democrazia diretta.
Secondo lei l’opinione pubblica si forma sui social?
Direi di no. Sono dei fenomeni sociali che io per professione osservo, ma che considero delle comunità chiuse. Hanno una dimensione autocircolante. Ci sono persone che postano e twittano su tutto, seguiti da gruppi chiusi. Nego in modo deciso che quello dei social sia tutto il mondo.
Lei usa i social?
No. Non so neppure come funzionano. Ovviamento li osservo e li studio. Su di me rimbalzano quelli che gli altri vogliono farmi arrivare, ma io non sono nel circuito. Le faccio un esempio: se il circuito chiuso dei grillini lancia dei post che rimangono circoscritti, a un certo punto interviene Casalino che piazza la frase ad effetto che rimbalza fuori e quella frase arriva anche a me. La bravura, non tecnica, ma politica dei grillini e dei leghisti oggi è di usare i social, ma per uscirne fuori dal circuito, arrivare ai media nazionali e dire: il popolo dei social è con noi.
I social, però, alimentano il rancore.
Il rancore che circola sui social lo definirei naturale, comprensibile, parliamo di quelle persone che ce l’hanno con il mondo intero. Nel rapporto Censis dello scorso anno abbiamo scritto: “il rancore è il lutto di ciò che non è stato”. Invece esiste un rancore programmato, studiato per incidere negativamente su personaggi pubblici. Ed è questo il fenomeno pericoloso, perché basta che ci siano alcuni “professionisti del rancore”, pronti a iniettare nei circuiti giusti messaggi velenosi e il gioco è fatto. La “casta” è una categoria nata fuori dai social, inventata da Rizzo e Stella sul Corriere della Sera, che ha incanalato la rabbia che cresceva nei confronti dei potenti. La lotta politica, a cominciare dagli anni 80, è stato permeata dal moralismo e il moralismo è rancoroso. Ho l’impressione, però, che la curva sia in fase calante: il “tutto è morale” si trasformerà in un “nulla è morale”. Di Maio ha addirittura dichiarato che i soldi del reddito di cittadinanza devo essere spesi in modo utile e morale. E sui social qualcuno ha chiesto: “Ma i preservativi si possono comprare? Sono utili e morali? ”.
Lei ha scritto con Antonio Galdo un libro dal titolo allarmante: “Prigionieri del presente”. Siamo messi così male, quindi?
Qualche anno fa andava molto di moda un filosofo siciliano che si chiamava Manlio Sgalambro che per capire la società italiana disse questa frase: “Il passato non mi interessa, è stato il presente di altri. Il futuro non mi interessa, sarà il presente di altri. Io mi interesso solo del presente, perché lì è il mio presente”. Questa è la prigionia che riguarda tutti: dagli imprenditori, ai politici, ai cittadini. Quando mi capita di parlare di personaggi vissuti negli anni 50 e che hanno inciso nella nostra società vengo guardato male, così come prima c’erano i filosofi e tecnologi che parlavano di futuro, di fantascienza. Oggi queste categorie sono sparite, si pensa solo all’oggi. E questa è una prigionia culturale.
Quale società vede oggi all’orizzonte?
È una società che scorre e si adagia nel presente. Anche la crisi di discontinuità, nata il 4 marzo, scorre. E allora il presentismo diventa quasi un elemento favorevole alla maturazione di una società che scorre e non crea una cascata, ma neanche una palude.
In questo scenario se il populismo ha il suo mantra nel popolo sovrano le élites hanno ancora una funzione?
Le élites vivono un momento difficilissimo, perché si viene subito etichettati come casta. So di andare controcorrente, ma ritengo che le élites siano necessarie. Non esiste una società, specialmente complessa, che non abbia bisogno delle élites. Nella nascita dell’Italia sono state determinanti: ragionavano sulla società di allora. Gioberti diceva “l’Italia è un Paese di sabbia”. Un intellettuale risorgimentale, Angelo Camillo De Meis, la descriveva come fatta da due popoli: il primo che sfanga la vita e il secondo che pensa al sentimento del primo. Il primo è la sabbia, il secondo pensò al sentimento e ne divenne il sovrano. Oggi abbiamo lo stesso problema, non la chiamiamo “società di sabbia”, ma citiamo Bauman che la descrive “fluida” o il sottoscritto che la definisce “molecolare”. È una società difficile da comporre, ma se non ci fosse stata l’élite rinascimentale l’Italia sarebbe rimasta davvero un Paese di sabbia, non coagulato, senza sintesi e senza identità. Oggi nessuno ha l’idea che un Paese “molecolare” abbia bisogno di una élite, si pensa che possa essere “fluida” e viene lasciate a se stessa. Nei giorni scorsi sono usciti due libri di Bauman: uno intitolato “L’amore liquido”, l’altro “La paura liquida”. Non a caso l’uomo della liquidità parla non di istituzioni, organizzazioni, ma di sentimenti. E Bauman non è élite. Oggi in Italia le élites dovrebbero riproporsi. Quando si legge Manzoni che parla di “società benevolente” e poi sente parlare Salvini si capisce che ci stiamo perdendo. Manzoni parlava di un popolo oppresso e incattivito e lo sforzo era quello di far crescere i Renzo Tramaglino, il primo popolo che “sfanga il quotidiano”. La bravura della Dc a cavallo tra gli anni 40 e 50 è stata proprio quella di dire al primo popolo fai da solo, rifate gli stabilimenti industriali da soli e così è stato. Il primo popolo per la prima volta si è sentito potente e lo ha fatto. La Prima repubblica è la repubblica del primo popolo che ha realizzato il miracolo italiano.
Oggi, politicamente e socialmente, chi cerca di capire come può essere coagulato il primo popolo?
Dovrebbe essere l’élite che, però, ha paura di esporsi per evitare attacchi pesanti e personali sui social di qualsiasi tipo. Bisogna capire che la nostra società deve puntare non sull’etica delle buone intenzioni, che storicamente ha prodotto il nazismo, il fascismo e il comunismo, ma sull’etica della responsabilità. Purtroppo oggi viviamo con una élite che o moraleggia o propone solo buone intenzioni. Non pensa al primo popolo che sfanga la vita, ma a se stessa. Se non c’è un po’ di coraggio di fare élite, di pensare per ridare a questo primo popolo un meccanismo di coesione, non certo per esserne il sovrano, si rischia di abbandonare il popolo di sabbia alle sue paure e ai suoi amori. Alla sua liquidità, che scorre e non si sa dove va.